The Virago Book of Women Travellers, la copertinaQuella che segue è la (splendida) introduzione a The Virago Book of Women Travellers di Mary Morris, tradotta da rachele.

L’ormai defunto John Gardner disse una volta che nella storia della letteratura esistono solo due trame: o si parte per un viaggio o uno straniero arriva in città. Alle donne per molti anni è stato impedito di viaggiare, e ciò le ha lasciate con in mano una sola possibilità: aspettare lo straniero. Nella narrativa al femminile, infatti, non si è mai sviluppata una tradizione picaresca e, se è vero che nell’ultima parte del ventesimo secolo si è verificato un cambio di tendenza, la letteratura femminile, a partire dalla Austen fino alla Woolf, è in larga parte una letteratura d’attesa. Attesa, di solito, per l’amore.

Davanti alla negazione della libertà di vagare al di fuori di sé stesse, le donne si sono concentrate sulla loro interiorità, sulle loro emozioni e sulle loro relazioni private, spesso d’amore, sempre caste. Elaine Showalter discute di questo fenomeno nel suo saggio Una letteratura tutta per sé: due secoli di scrittrici inglesi: «Le donne, a cui era proibito partecipare alla vita pubblica, furono obbligate a coltivare le loro emozioni e a sopravvalutare l’amore romantico… Le emozioni accorrevano nel tentativo di riempire il vuoto lasciato dalla mancanza di esperienze».

Per secoli la possibilità che una donna viaggiasse senza un accompagnatore, uno chaperon o il marito venne considerata inaccettabile. Viaggare significava esporsi a rischi, non solo dal punto di vista fisico, ma anche morale. Un briciolo di libertà poteva trasformarsi in un’arma pericolosa. Erica Jong ha scelto bene l’espressione ‘paura di volare’ come metafora dei primi incerti passi che una donna compie sul percorso che la porta al risveglio sessuale. Il linguaggio tipico dell’iniziazione sessuale è sorprendentemente simile al linguaggio del mondo dei viaggi. Parliamo di exploit o di avventure sessuali. Il corpo e il mondo sono oggetti da esplorare e, da sempre, i grandi “esploratori”, che fossero Marco Polo o Don Giovanni, sono stati maschi.

Gulliver comincia i suoi famosi viaggi dopo la morte del suo Master Bates (in italiano maestro Bates, si discute da tempo sul gioco di parole sottinteso tra Master Bates e il verbo inglese masturbate, masturbarsi) da cui ha imparato il mestiere. Davanti al fallimento dei suoi affari, si consulta con sua ‘Moglie’ e si decide a ‘partire di nuovo per il Mare’. Voli ed evasioni, il bisogno di fuggire dai vincoli e dalla routine della vita domestica, di partire e, allo stesso tempo, di conquistare: questo prendere il volo dal nido è una modalità tipica dell’esperienza maschile.

Nonostante ciò, alla fine del diciannovesimo secolo Maud Parrish, in procinto di partire per lo Yukon, non era molto diversa da Gulliver: «Così me ne andai. Con piú foga di quella che avrei avuto se fossi stata inseguita dai leoni. Senza dirglielo. Senza dirlo a mia madre o a mio padre. Non esisteva libertà a San Francisco per le donne comuni. Ma io ne avevo trovata. Per le ragazze niente lavori negli uffici, come succede ora. Ti potevi sposare, diventare una vecchia zitella o andare al diavolo: queste le alternative». In modo simile Flora Tristan, correndo un grosso rischio economico e sociale, lasciò il marito e, come un paria, viaggiò il Perù in lungo e in largo.

Queste donne – e molte altre tra quelle incluse in questa antologia – sono le eccezioni. Trovo significativo e illuminante che le stecche dei corsetti femminili si chiamassero in inglese ‘stay’, parola che significa anche ‘stare’, ‘rimanere’: chiunque indossasse qualcosa chiamato così, difficilmente sarebbe andato lontano. E non avrebbe fatto altrettanto nemmeno una donna con i piedi fasciati. Camuffate come canoni estetici tipici di un periodo o di una cultura, la costrizione del corpo in rigidi corsetti dell’Occidente e la fasciatura dei piedi in Oriente erano essenzialmente modi per limitare la libertà di movimento delle donne.

Lady Mary Wortley Montagu, una scrittrice che partì con suo marito per la Turchia nel 1716 e che divenne famosa per le sue lettere, riporta un interessante aneddoto riguardo le stecche dei corsetti. In seguito a una visita ad un bagno turco di Sofia in cui le altre donne l’avevano pregata di svestirsi, Lady Montagu scrive: «Alla fine venni spinta ad aprire la mia camicia e a mostrar loro il mio corsetto; il che tolse loro qualsiasi soddisfazione perché, come notai, si convinsero che ero così ben imprigionata in quell’affare di cui attribuirono l’invenzione a mio marito, da non potermene liberare da sola».

È stato detto che le donne non avrebbero quello che Baudelaire chiamava il gout du gouffre, l’attrazione per l’abisso. Anche Louise Bogan ha scritto che le donne non posseggono dentro di sé uno spirito selvatico. Ed Elizabeth Bishop nella sua poesia Questions of Travel riflette sull’ambivalenza insita nel viaggiare, quando parla di andare ‘là’, in un altro posto, mentre desidera di essere ‘qui’, a casa. Di certo queste riflessioni non indicano, da parte delle donne, un autentico desiderio di viaggiare, né tantomeno di scrivere di viaggi.

Ma ci sono state comunque molte donne che hanno viaggiato lungamente, scrivendo con impegno dei propri viaggi: non sempre le loro voci sono state ascoltate ed apprezzate.

Ho cominciato a riflettere sulla letteratura di viaggio diversi anni fa. A metà degli anni 80 l’inserto domenicale del New York Times, il New York Times Sunday Book Review, pubblicò un numero speciale dedicato alla narrativa di viaggio, che recensiva venticinque o trenta libri da poco pubblicati, in larga parte scritti da uomini. Mi sembrò strano che quell’inserto avesse citato così pochi libri scritti da donne.

Mi chiesi perché le donne, che senza dubbio viaggiavano (diverse erano state mie compagne di viaggio), non stessero scrivendo dei loro viaggi. Forse non viaggiavano come gli uomini o forse non pensavano che le loro esperienze fossero paragonabili a quelle degli uomini. La paura dello stupro, che arrivi attraversando il Sahara o anche solo una città di notte, come scrive Robin Morgan nel racconto incluso in questo volume e tratto da Il demone amante: sessualità del terrorismo, influenza in modo drammatico le modalità in cui le donne si spostano. Ma ci sono altre forme di molestia, molto piú subdole. Christina Dodwell arriva a fingere di avere le pulci quando un soldato si rifiuta di lasciare il luogo dove lei campeggiava di notte. Dal resoconto di Leila Philip impariamo che nel Giappone rurale la donna dovrebbe stendere i panni del proprio marito su un filo diverso da quello dove stende i suoi panni impuri.

Nel leggere gli scritti di quei viaggiatori degli Anni ’80 scoprii che le loro esperienze non corrispondevano o confermavano la mia. La maggior parte di questi uomini esplorava un mondo che era essenzialmente esterno, rivelando solo frammenti di ciò che erano, delle persone che amavano o di quelle che gli mancavano. I loro meccanismi interiori nella gran parte dei casi (ma con eccezioni meravigliose come Peter Matthiessen e il suo Il leopardo delle nevi, Henry Miller e il Colosso di Marussi e Colin Thubron e le cronache dei suoi viaggi in Cina e Russia) erano nascosti, oscurati.

Lawrence Durell, descrivendo Freya Stark, diceva: «Una grande viaggiatrice è una viaggiatrice introspettiva: mentre si fa strada all’esterno, fa lo stesso dentro di sé». E infatti, per molte donne, il paesaggio interiore è importante tanto quanto quello esterno, chi osserva tanto quanto l’oggetto osservato. Il paesaggio è plasmato dalla consapevolezza della persona che lo attraversa. Si instaura un dialogo tra ciò che accade all’interno e all’esterno. La presenza di una persona amata, com’è il Jim di Isabella Bird, nel suo brano tratto da Una lady nel west: tra pionieri, serpenti e banditi sulle Montagne Rocciose o la sofferenza per un’assenza dolorosa, nel caso della profonda nostalgia di Mary Wollstonecraft per la mancanza delle figlie, durante il suo viaggio attraverso la Scandinavia, sono parte integrante dell’esperienza di una donna. Cosa significa innamorarsi o come si possa riuscire ad evitare una situazione difficile e sessualmente pericolosa. Spesso esse sono testimonianza di esperienze femminili in culture diverse; per esempio, la Bridges mostra solidarietà alle donne mormone per la condizione che le affligge, mentre Anna Leonowens racconta degli abusi che dovevano sopportare le donne degli harem del Siam.

«Sono un conoscitore della strada» dice l’attore River Phoenix nel film Belli e Dannati. Ma forse per le donne le strade sono diverse. La realtà di una donna sulla strada è spesso una realtà personale. Ciò non significa che una donna viaggiatrice non sia politicamente consapevole, preparata storicamente o che non si ponga in contatto con le tradizioni e con la lingua di un luogo. Significa però che una donna non può viaggiare senza essere consapevole della propria fisicità e delle limitazioni che il suo sesso le impone. Isabelle Eberhardt, così come Sarah Hobson, viaggiò in incognito, travestita da uomo. Eliza Farnham, mentre attraversava la frontiera americana nel 1852, si trovò a dover mettere il suo baule e il suo stesso corpo contro la porta della stanza dove si stava lavando, per evitare che un uomo vi entrasse. E Kali (Gwendolyn MacEwen) nell’ Holyland Buffet racconta di esser stata presa a sassate da alcuni ragazzi arabi che pensavano fosse una sabra, una donna israeliana, e non una ‘donna in viaggio da sola’.

Il proprio sesso é un elemento di legame tra le donne viaggiatrici. Le donne ripongono fiducia nelle altre donne. Si raccontano i segreti legati al loro ciclo, ai loro figli, ai mariti, agli amanti e alle difficoltà delle proprie vite. Lo fanno nei bagni, sugli aerei e sulla strada, spesso davanti a perfette sconosciute. Condividono segreti. Non pescano né vanno a caccia insieme, ma possono arrivare a parlare di un aborto e di una vita miserabile, come decide di fare una donna iraniana davanti a Sarah Hobson, nel momento in cui capisce che la Hobson non è un giovane uomo, ma una giovane donna.

Il nostro obiettivo nello scegliere i brani per questa antologia è stato trovare i migliori scritti di viaggio composti da donne. Forse esistono donne che hanno scalato vette più alte, che si sono inoltrate più a fondo nella giungla o più famose, ma il nostro interesse principale era rivolto alla qualità della scrittura e alla visione che le stava dietro. Allo stesso tempo, desideravamo riunire un buon numero di testi significativi, rappresentativi del mondo delle donne e dei loro viaggi, portando esempi sia dei primi che dei piú recenti esperimenti di letteratura di viaggio femminista.

Alcune di queste donne sono osservatrici del mondo in cui vagabondano. I loro scritti sono ricchi di descrizioni, notevolmente dettagliati. Mary MacCarthy comunica la vitalità della città di Firenze, mentre il saggio di Willa Cather su Lavandou prelude alle descrizioni della campagna francese che si trovano nei suoi romanzi successivi. Il brano di Barbara Grizzuti Harrison riguardante il comune di San Gimignano, assomiglia a una canzone d’amore. Nel ritratto sensuale di Digione tratteggiato da M.F.K. Fisher si può addirittura sentire il profumo di mostarda che ne riempie le vie. Altre scrittrici si dimostrano partecipanti piú attive della cultura dei posti che visitano: è questo il caso di Leila Philip, che raccoglie il riso insieme a severe donne giapponesi, o di Emily Carr, che guadagna il rispetto e la fiducia del capo femmina di un villaggio indiano della regione settentrionale del Canada, dove si era trasferita per ritrarre in dipinto gli eccezionali totem della regione.

Spesso sono narratrici, che tessono le storie delle persone che incontrano. E noi finiamo col ritrovarci mossi dalle storie che queste autrici raccontano, storie che sentiamo nascere dalla loro peculiare sensibilità di donne: Flora Tristan riporta la vicenda di un comandante di nave (un personaggio marqueziano, se ne è mai davvero esistito uno) infelice, all’epoca dell’incontro, perché separato dall’adorata moglie da anni, a causa di una promessa prenuziale estorta dal suocero; Mildred Cable e Francesca French raccontano l’aneddotto di un dissidente cinese fuggito in Mongolia che si informava di nascosto sullo stato della sua famiglia. E Anna Leonowens (famosa come Anna del film Il re ed io) racconta l’episodio di un bambino deriso e di una madre punita, nonostante le suppliche del figlio, sotto il regime autoritario del Re del Siam.

In alcuni casi si supera la questione di genere, come per l’eccezionale storia di Alexandra David-Neel, che salva sé stessa e il proprio figlio adottivo dalla morte per congelamento in un gelida pianura nell’inverno tibetano, innalzando la temperatura del suo corpo attraverso la pratica tibetana del thumo reskiang, o per l’arguzia acerba di Freya Stark e per il nudo coraggio di Dervla Murphy o di Christina Dodwell. In alcuni casi queste donne hanno assunto ruoli di primo piano tradizionalmente di prerogativa maschile. Ad esempio, nel 1894 Isabella Bird divenne la prima donna membro della Royal Geographical Society, seguita da Mary Kingsley e Kate Marsden. Gertrude Bell divenne la principale esperta di Medio Oriente per l’Impero Britannico a Baghdad insieme a T. E. Lawrence.

Forse partirono come spiriti liberi, come fece Maud Parish, che si avviò per l’Alaska insieme al suo banjo. Forse il loro obiettivo era curiosare tra i giardini di Persia, come fu per Vita Sackville-West, o saltare su carri merci, per vagabondare attraverso l’America, come fece Box-Car Bertha. Ognuna di queste alternative aiuta a comporre un mosaico delle esperienze femminili sulla strada. In ciascuno di questi casi, lo sguardo è personale ed unico.

Ognuna di queste donne aveva un motivo che la spingeva ad andare. Alcune, come le Lady, Mary Kingsley e Isabella Bird, partirono – come riporta Mabel Sharman Crawford nell’estremamente progressista Plea for Lady Tourists – perché erano «donne indipendenti economicamente e senza legami domestici». Alcune, come Lady Montagu e Isak Dinesen, accompagnavano i loro mariti, altre, come Maud Parrish, scappavano per liberarsi dalla stretta della vita domestica. Kate Marsden, Mildred Cable e Francesca French partirono come missionarie.

Altre ancora sembravano in fuga: a Isabella Bird venne detto che viaggiare avrebbe curato i suoi problemi alla schiena e lei non si fermò più; Isabelle Eberhardt scappò da una infelice vita aristocratica rinunciando addirittura ai propri diritti di nascita. Sia Mary Kingsley che Dervla Murphy partirono dopo la morte dei genitori, già sofferenti, che avevano accudito per anni. Ethel Tweedie cominciò a viaggiare e a scrivere dopo aver sofferto un drammatico lutto (la morte del marito e dei figli). Sia che si trattasse di curiosità per il mondo o di fuga da tragedie personali, queste donne hanno affrontato i loro viaggi con intelligenza, arguzia, compassione ed empatia per le vite degli altri.

Alcune, davanti all’esperienza dello scrivere lontane da casa, sembrano aver prodotto i loro migliori capolavori. Lady Montagu era una scrittrice prolifica sia di prosa che di poesia (è la sola poetessa inglese dell’ottocento ad avere una biografia critica a lei dedicata), ma l’unico suo libro rimasto sempre in stampa dal momento della sua pubblicazione è la sua raccolta di lettere scritte dalla Turchia. Quando Mary Shelley (figlia di Mary Wollstonecraft) e suo marito, il poeta Romantico Percy Shelley, vennero in Italia, portarono con loro un libro: il viaggio di Mary Wollstonecraft in Scandinavia.

Sebbene Isak Dinesen e Rebecca West fossero famose autrici di romanzi già ai loro tempi, le opere considerate i loro capolavori sono, rispettivamente, i loro scritti sull’Africa e sulla Jugoslavia. Abbiamo poi incluso scrittrici come Annie Dillard e Joan Didion, non considerate principalmente autrici di narrativa di viaggio, ma la cui capacità di sentire un luogo serve come catalizzatore per riflessioni piú ampie sul mondo.

Molte delle donne presenti in questa antologia rappresentano, come ho detto prima, ciò a cui Crawford si riferisce con queste parole: «donne economicamente indipendenti e senza legami domestici». Le prime viaggiatrici erano donne delle classi più agiate delle società europee, immancabilmente bianche e privilegiate. Questo trend non è cambiato molto negli ultimi due secoli e sulla letteratura di viaggio pesano tuttora gli ultimi strascichi del colonialismo. La letteratura di viaggio, sia maschile che femminile, è in attesa dell’ampia varietà di racconti provenienti da voci e prospettive multiculturali. Come femministe, però, le autrici qui raggruppate rivelano visioni sorprendentemente progressiste per l’epoca in cui hanno scritto e vissuto. È  difficile non rimaner colpiti dall’osservazione di Lady Montagu secondo cui le donne turche sarebbero le piú libere al mondo, perché libere di nascondersi dietro un velo, spostarsi come e dove desiderano e concedersi romantici rendesvouz con il proprio amato. Succede altrettanto con la richiesta della Tweedie per l’eliminazione delle selle da amazzone, invenzioni, secondo lei, assurde, pessime per la salute della donna e non adatte a cavalcare seriamente, o con l’indignazione della Bridges per la poligamia in America.

Abbiamo cercato di raccogliere lavori di diverso tipo allo scopo di mappare il femminismo, su un periodo di oltre trecento anni, attraverso le donne e i loro scritti. In alcuni casi (Maud Parrish e Vivienne DeWatteville, per citarne due) le uniche tracce lasciate dalle autrici sono i loro scritti di viaggio, e fornire informazioni biografiche su di loro si è rivelato difficile. Per diversi motivi, abbiamo deciso di non includere i viaggi ‘non volontari’. Sarebbe sembrato casuale e forse anche irrispettoso giustapporre scritti di schiavi in fuga, di pionieri, storie di guerra, di migrazioni e di spostamenti forzati, a racconti su traversate del deserto, guadi di paludi e montagne scalate per scelta.

I nostri criteri sono stati molto specifici e in alcuni casi abbiamo scelto di non includere scrittrici molto famose per i loro scritti di viaggio perché le loro visioni o le loro esperienze non ci sembravano adatte all’obiettivo di questa raccolta. Ci rammarichiamo per l’assenza di sguardi piú multiculturali. Speriamo che in futuro le fratture di genere e di razza si ricomporranno; per ora le voci che vi presentiamo con questa antologia sono ciò che abbiamo trovato.

Dato che viaggiare è anche tornare, e non solo partire, vorrei ritornare all’inizio di questa introduzione per riprendere l’affermazione di John Gardner, secondo cui esistono solo due trame nella storia della letteratura. Da Penelope ai giorni nostri, le donne hanno sempre aspettato: una telefonata, una proposta di matrimonio, il ritorno del loro prodigo uomo dal mare, dalla guerra o da un viaggio di lavoro. Aspettare come pazienti dal medico, come pendolari per l’autobus, come carcerati per la libertà condizionale, significa essere, in qualche modo, impotenti.

Speriamo che questa antologia chiarirà che entrambe le trame sono a disposizione delle donne. Se ci stancheremo di aspettare, potremo partire. Potremo diventare noi lo straniero che arriva in città.

Mary Morris (Boston, 1947) è una scrittrice americana che da anni si occupa di narrativa di viaggio.
Autrice di diversi romanzi (in Italia Revenge, edizioni Leconte 2007), raccolte di racconti (The Bus of Dreams, The Lifeguard Stories) e cronache di viaggio (in Italia Niente da dichiarare, edizioni La Tartaruga), insegna scrittura creativa al Sarah Lawrence College di New York ed ha collaborato con diverse testate giornalistiche, tra cui il New York Times. Ha un blog, The Writer and the Wanderer.

The Virago Book of Women Travellers è un’antologia che raccoglie 52 testi di altrettante autrici anglosassoni, che, raccontando le loro avventure in giro per il mondo, rivelano anche il loro punto di vista sul viaggiare. Ogni estratto è preceduto da una breve introduzione della Morris che inquadra le singole autrici e il testo presentato.
Si tratta di frammenti distribuiti su un ampio arco di tempo che assumono i tratti di una narrazione corale non solo dell’esperienza di viaggio in quanto tale, ma anche ‘dell’andare’ inteso come ricerca di sé stessi. Un viaggiare che acquista ulteriore valore se considerato come atto di ribellione di genere, a un’ottica che vietava il viaggio alle donne.

(La foto in alto e in home page ritrae Amelia Earhart, prima aviatrice americana ad attraversare in solitaria l’Oceano Atlantico)

Mary Morris (Boston, 1947) è una scrittrice americana che da anni si occupa di narrativa di viaggio.

Autrice di diversi romanzi (in Italia Revenge, edizioni Leconte 2007), raccolte di racconti (The Bus of Dreams, The Lifeguard Stories) e cronache di viaggio (in Italia Niente da dichiarare, edizioni La Tartaruga), la Morris insegna scrittura creativa al Sarah Lawrence College di New York ed ha collaborato con diverse testate giornalistiche, tra cui il New York Times.

Con The Virago Book of Women Travellers (1996) la Morris – presente nell’antologia con un’ interessante introduzione e con un estratto – sceglie di mettersi in disparte per dar voce ai racconti di altre donne viaggiatrici come lei.

The Virago Book of Women Travellers è un’antologia che raccoglie 52 testi di altrettante autrici anglosassoni, che, raccontando le loro avventure in giro per il mondo, rivelano anche il loro punto di vista sul viaggiare. Ogni estratto è preceduto da una breve introduzione della Morris che inquadra le singole autrici e il testo presentato.

Si tratta di frammenti distribuiti su un ampio arco di tempo che assumono i tratti di una narrazione corale non solo dell’esperienza di viaggio in quanto tale, ma anche ‘dell’andare’ inteso come ricerca di sé stessi. Un viaggiare che acquista ulteriore valore se considerato come atto di ribellione di genere, a un’ottica che vietava il viaggio alle donne.

La vicinanza di racconti, stili e sensibilità tanto diversi gli uni dagli altri permette infine di scoprire, pur nella diversità, un approccio femminile condiviso, al viaggiare.