di Jonah Lehrer, pubblicato sul San Francisco Panorama, tradotto da rachele.
Sono le 4.15 di mattina e la mia sveglia mi ha appena portato via un bel sogno. I miei occhi sono aperti ma le mie pupille sono ancora chiuse, tutto quello che vedo è un’oscurità velata. Per un breve istante riesco a convincermi che il mio essere sveglio è un errore, che posso tranquillamente tornare a dormire. Ma poi mi giro e vedo la mia valigia con la cerniera da cui traboccano troppi tubetti di dentifricio. Emetto un grugnito assonnato: devo andare all’aeroporto.
Il taxi è in ritardo. Ci dovrebbe essere un aggettivo (un sinonimo di sobrio, ma peggiorativo) per descrivere lo stato mentale che deriva dall’attesa nel bagliore arancione di un lampione prima di aver bevuto una tazza di caffè. E poi il taxi si perde. E poi mi innervosisco, perché il mio aereo parte fra un’ora. E poi ci siamo, e io vengo catapultato nella fredda incandescenza del Terminal B, e corro con la valigia per ritrovarmi a fare la lunga fila del controllo sicurezza. La fibbia della mia cintura fa suonare il metal detector, il mio deodorante da più di 100ml mi viene confiscato e il mio calzino sinistro è bucato.
Alla fine arrivo al gate. A questo punto, avrete ormai capito qual è la conclusione di questa banalissima storia: il mio volo è stato cancellato. Rimarrò bloccato in questo terminal per i prossimi 218 minuti, unica consolazione una tazza di caffeina e un panino McGriddle. Perderò la mia coincidenza e aspetterò un altro aereo, in una città diversa ma con lo stesso menu. E quattordici ore dopo sarò arrivato.
Perché viaggiamo? Non è il volare che mi preoccupa – sarò sempre affascinato dalle leggi della fisica che permettono a un grasso uccello di metallo di volare nella troposfera. Il resto del viaggio, comunque, può assomigliare a una tediosa lezione alla scoperta dei mali della modernità, dagli x-ray prima del tramonto ai tristi shopping center degli aeroporti che vendono orrendi souvenir. È un concentrato di globalizzazione, e fa schifo.
Nonostante ciò, siamo qui, ammassati sempre più numerosi su aerei che non accennano a cambiare di dimensioni. Qualche volta, è ovvio, viaggiamo perché dobbiamo; perché in quest’era digitale c’è ancora qualcosa di intrinsecamente importante nella stretta di mano analogica. O nel mangiare il tacchino del Ringraziamento della mamma. O nel vedere la nostra fidanzata durante le sue vacanze.
Ma la maggior parte dei viaggi non sono non negoziabili. (Nel 2008 solo il 30% dei viaggi che superavano le 50 miglia di distanza sono stati fatti per lavoro). Invece, viaggiamo perché vogliamo, perché i fastidi dell’aeroporto sono compensate di gran lunga dalla viscerale eccitazione dell’essere in un posto nuovo. Perché il lavoro è stressante e la pressione del sangue è troppo alta e abbiamo bisogno di una vacanza. Perché casa è noia. Perché i voli erano a prezzi stracciati. Perché Parigi è Parigi.
Viaggiare, in altre parole, è un desiderio umano primario. Siamo una specie migratoria, anche quando le nostre migrazioni sono alimentate da carburante aereo e Chicken McNuggets. Ma ecco la mia domanda: questo bisogno collettivo di andare – di mettere chilometri di distanza tra noi stessi e ciò che conosciamo – è ancora una pulsione che vale la pena ascoltare? O è come il sapore dei grassi saturi, uno di quegli istinti che avremmo dovuto lasciarci alle spalle nel Pleistocene? Perché se il bello del viaggiare sta tutto nel divertimento, le mille norme sulla sicurezza aeroportuale l’hanno ucciso da un pezzo.
La buona notizia, almeno per quelli di voi che stanno leggendo questo articolo su una pista di decollo mangiando pretzel stantii, è che il piacere non è l’unica consolazione del viaggiare. Infatti, diverse ricerche scientifiche suggeriscono che partire – e non importa nemmeno la destinazione – è un tratto distintivo del pensiero efficace. Non c’entrano le vacanze o il relax, o il sorseggiare daiquiri su una spiaggia tropicale incontaminata; ciò che importa è l’atto tedioso in sé: il mettere chilometri tra casa nostra e il luogo qualunque dove decideremo di passare la notte.
Cominciamo con l’aspetto più letterale del viaggiare, ovvero il fatto che si tratta di un verbo di movimento. Grazie alle moderne tecnologie, al giorno d’oggi possiamo muoverci attraverso lo spazio a una velocità disumana. Camminare a una velocità media ci permette di coprire quasi 5 chilometri all’ora, una velocità circa 200 volte inferiore alla velocità di crociera di un Boeing 747. Per la prima volta nella storia dell’umanità, possiamo battere sul tempo il sole e passare da un clima all’altro in un solo giorno.
Il motivo per cui questi viaggi sono utili al cervello si spiega con una bizzarria nel processo cognitivo, per cui i problemi che sembrano “vicini” – e la vicinanza può essere fisica, temporale o anche emotiva – vengono contemplati in una modalità più concreta. Come risultato, quando pensiamo a cose che ci sono vicine, i nostri pensieri sono costretti, legati da una serie di associazioni più limitate. Se spesso questa abitudine può essere utile – ci permette di focalizzarci sui fatti che abbiamo sotto mano – può anche inibire la nostra immaginazione.
Prendete un campo di grano. Quando siete in mezzo al campo, circondati dagli alti fusti di cellulosa e dagli involucri sfilacciati delle pannocchie, l’aria che profuma vagamente di fertilizzante e di popcorn, la vostra mente si concentra automaticamente su pensieri che ruotano attorno al significato primario del grano, ovvero che si tratta di una pianta, di un cereale, di un prodotto fondamentale per l’agricoltura del Midwest americano.
Ma ora provate a immaginare quello stesso campo di grano da una nuova prospettiva. Invece di essere in una fattoria, siete nel bel mezzo di una strada di città affollata, in cui si riversano taxi e pedoni. (E, per qualche strana ragione, state ancora pensando al grano). La pianta non sarà più soltanto una semplice pianta: il vostro vastissimo sistema nervoso sfodererà ogni sorta di associazione di idee. Penserete a sciroppi di grano zuccherosi, all’obesità, a Michael Pollan, vi ritroverete a contemplare l’etanolo e i caucus dell’Iowa, quei labirinti nel grano per bambini tipici delle fiere di paese e la squisitezza del succotash, fatto con la pancetta e i fagioli di lima. Il nome si è trasformato in una rete di tangenti, un telaio di connessioni remote.
Ma cosa c’entra tutto ciò con il viaggiare? Quando fuggiamo dal luogo in cui passiamo gran parte del nostro tempo, la nostra mente diventa improvvisamente conscia di tutte quelle idee errabonde che avevamo precedentemente soppresso. Cominciamo a pensare a possibilità remote – il grano può fare da carburante per le auto! – che non avremmo mai considerato se fossimo rimasti nel mezzo della fattoria. Inoltre, questa versione più rilassata del processo cognitivo ha anche vantaggi pratici, specialmente nel caso in cui stiamo cercando di risolvere problemi complessi. Consideriamo, in proposito, un esperimento condotto di recente dallo psicologo Lile Jia all’Università dell’Indiana. Jia ha separato casualmente alcune dozzine di studenti universitari in due gruppi; a entrambi i gruppi è stato chiesto di elencare tutti i mezzi di trasporto che conoscevano. (Questo processo è conosciuto come creative-generation task). A un gruppo è stato detto che il progetto era stato sviluppato da studenti dell’Università dell’Indiana che stavano studiando in Grecia per un periodo (condizione di distanza), al secondo gruppo è stato invece detto che il progetto era stato sviluppato da studenti dell’Università che stavano, però, studiando in Indiana (condizione di prossimità). A un primo sguardo, è difficile credere che una differenza così minima e in apparenza irrilevante possa alterare la performance dei soggetti coinvolti. Perché dovrebbe importare dove è stato sviluppato il progetto?
Nonostante ciò, Jia ha scoperto una differenza lampante tra i due gruppi: quando agli studenti era stato riferito che il progetto era stato importato dalla Grecia, questi avevano elencato un numero significativamente maggiore di mezzi di trasporto. Non si erano limitati a elencare autobus, treni e aerei: avevano incluso cavalli, trireme, navi spaziali, biciclette e anche i segwey. I soggetti si erano sentiti meno limitati dalle possibilità di trasporto locali perché la fonte del problema veniva da così lontano; non si erano limitati a pensare ai mezzi di trasporto per muoversi in Indiana, ma avevano pensato allo spostamento in tutto il mondo, e anche nello spazio.
In uno studio successivo, Jia ha scoperto che le persone risolvono più facilmente una serie di puzzle se gli viene detto che provengono dalla California e non dalla stanza in fondo al corridoio. Questi soggetti hanno considerato una gamma ben più ampia di alternative, che ha aumentato le loro chance di risolvere gli impegnativi enigmi a cui erano stati sottoposti. C’è qualcosa di intellettualmente liberatorio nel concetto di distanza.
Il problema, ovviamente, è che la gran parte dei nostri problemi sono locali – gli abitanti dell’Indiana si preoccupano dell’Indiana, non del Mediterraneo orientale o della California. Questa considerazione ci apre due possibilità: 1) trovare un modo intelligente di ingannare noi stessi e farci credere che i nostri dilemmi locali sono invece lontani o, 2) andare in un posto lontano e, una volta là, pensare ai problemi che ci affliggono a casa. Dati i limiti dell’auto-inganno – non siamo nemmeno capaci di auto-solleticarci – viaggiare sembra la soluzione più pratica.
Certo, non basta salire su un aereo: se vogliamo sperimentare i benefici creativi del viaggiare, dobbiamo ripensare la sua raison d’être. Molti di noi, dopotutto, scappano a Parigi per non pensare ai problemi che si sono lasciati alle spalle. Ma ecco l’ironia della sorte: è più facile che la nostra mente risolva i rompicapi più complicati che ci affliggono proprio mentre siamo seduti a un elegante bar della rive gauche. Quindi, invece di contemplare quel burroso croissant, dovremmo riflettere intensamente su quei rompicapi che non riusciamo a risolvere a casa.
La lezione più importante, comunque, è che i nostri pensieri vengono incatenati da ciò che ci è familiare. Il nostro cervello è un intreccio neurale di possibilità praticamente infinite, ciò significa che spende molto tempo e molte energie per scegliere a cosa non far caso. Il risultato è che si rinuncia alla creatività per prediligere l’efficienza; pensiamo in prosa, non in poesia simbolista. Un po’ di distanza, comunque, aiuta ad allentare le catene del processo cognitivo, rendendo più semplice vedere qualcosa di nuovo in ciò che è vecchio; il mondano viene approcciato da una prospettiva leggermente più astratta. Come scriveva T.S. Eliot nei Quattro Quartetti: “Non smettiamo di esplorare, e la fine di tutte le nostre esplorazioni sarà arrivare dove siamo partiti e conoscere quel posto per la prima volta”.
Ma la distanza non è l’unico vantaggio insito nel viaggiare. Pochi mesi fa, alcuni ricercatori dell’INSEAD – una business school francese – e della Kellogg School of Management di Chicago hanno dimostrato che studenti che avevano trascorso un periodo all’estero avevano il 20% in più di possibilità di risolvere con successo la simulazione al computer di un classico test psicologico chiamato il problema della candela di Duncker rispetto agli altri studenti che non avevano mai soggiornato all’estero.
Il problema di Duncker ha una semplice premessa: ai soggetti viene data (o, in questo caso, mostrata) una scatola di cartone contenente alcune puntine, una scatola di fiammiferi e una candela di cera. Gli viene richiesto di determinare come incollare la candela a un pezzo di sughero in modo che possa bruciare senza far cadere gocce di cera a terra. Quasi il 90% dei soggetti seguono generalmente le stesse due strategie, nonostante nessuna delle due sia quella giusta. Scelgono di fissare la candela direttamente alla scatola di cartone, il che frantumerà la cera della candela. Oppure decidono di sciogliere la candela con i fiammiferi in modo da incollarla al piano. Ma la cera non terrà e la candela cadrà a terra. A questo punto, la maggioranza delle persone si arrende, concludendo che il problema è irrisolvibile, che è uno stupido esperimento e uno spreco di tempo. E, in effetti, solo una piccola parte dei soggetti coinvolti – spesso meno del 25% – riesce a trovare una soluzione al quesito, che include l’incollare la candela alla scatola sciogliendo la cera e poi fissare la scatola di cartone al pezzo di sughero. A meno che le persone non abbiano un’intuizione sulla scatola – che può servire non solo a contenere le puntine – continueranno a sprecare candela su candela. Continueranno a sbagliare in attesa di un colpo di genio. Questo fenomeno è noto come predisposizione all’immobilità funzionale, dato che a quanto pare siamo pessimi nel giungere a nuove conclusioni riguardo a qualcosa di vecchio o noto. Ecco perché ci sorprendiamo tanto nello scoprire che un forno può essere utilizzato anche come piccolo armadio, o una mela come bong.
Ma cosa c’entra questo con il vivere all’estero? Secondo i ricercatori, sperimentare un’altra cultura ci dota di una preziosa apertura mentale e ci rende più semplice realizzare che una cosa può avere più significati. Pensate all’atto di lasciare del cibo nel piatto: in Cina, è considerato un complimento, un segno che il padrone di casa o chi per lui è riuscito a saziarci. Ma in America è un sottile insulto, un segnale che il cibo non era abbastanza buono da finirlo tutto.
Questi contrasti culturali significano che i viaggiatori più esperti sono esposti all’ambiguità, più disposti a realizzare che ci sono diversi (ed egualmente validi) modi di interpretare il mondo. Questo, di rimando, permette loro di espandere la circonferenza dei loro “input cognitivi”. Si rifiutano di fermarsi alla loro prima risposta e alle prime ipotesi che formulano. Dopotutto, forse questi viaggiatori portano candele in scatole da puntine in Cina. Forse esiste persino un modo migliore per attaccare una candela a un muro.
Ovviamente, questa flessibilità mentale non deriva solo dalla semplice distanza. Non è sufficiente cambiare fuso orario o trascinarsi dall’altra parte del mondo per ordinare Le Big Mac invece di un normalissimo panino di Mcdonalds. Al contrario, questo aumento della creatività sembra essere un effetto collaterale della differenza: abbiamo bisogno di cambiare cultura, di sperimentare la disorientante diversità delle tradizioni umane. Gli stessi dettagli che rendono il viaggiare incerto – do la mancia al cameriere? Dove mi porterà questo treno? – dimostrano di avere un impatto duraturo, rendendoci più creativi perché meno isolati. Ci viene ricordato ciò che non sappiamo, ovvero praticamente tutto; siamo sorpresi dal flusso ininterrotto di sorprese. Anche in quest’era globalizzata che si trascina verso l’omologazione, possiamo ancora ammirare le meraviglie terrene non incluse nella nostra guida turistica e che, di certo, non esistono a casa nostra.
Quindi, non facciamo finta di pensare che viaggiare sia sempre divertente, o che sopportiamo il jet lag per puro piacere. Non passiamo dieci ore persi nel Louvre perché ci piace perderci, e la vista dalla cima di Machu Pichu probabilmente non ci ripaga del fastidio dei bagagli smarriti. (Più spesso del dovuto, dopo una vacanza avrei bisogno di un’altra vacanza). Viaggiamo perché abbiamo bisogno di farlo, perché la distanza e la differenza sono gli ingredienti segreti della creatività. Quando torniamo a casa, casa è ancora uguale a se stessa. Ma qualcosa nella nostra testa è cambiato. E questo cambia tutto.
Jonah Lehrer è autore di How We Decide e Proust Was a Neuroscientist. Scrive su Wired e vive a Los Angeles. Questo è il suo sito internet.