In viaggio tra l’Italia meno conosciuta.
Il Tobbio è un monte poco più alto di mille metri, al confine tra Piemonte e Liguria. Non dista più di quaranta minuti dalla casa in cui sei nato, così ti sei abituato a salirci fin da ragazzo, tanto da considerarlo ormai un posto familiare. Del resto, conosci meglio i sentieri che ti portano fin in cima che molte delle vie del centro di Milano. É un monte roccioso che in primavera profuma d’erica, mentre d’estate, colorato d’arancio, inganna con la pendenza delle sue salite. Vista la sua altezza non proibitiva, permette di raggiungere il rifugio che ne presidia la cima anche d’inverno, a differenza di altre vette che, coperte di neve, diventano difficili da sfidare per chi come te non è abbastanza allenato.
Di solito le salite prendono via dal Valico degli Eremiti. É un passo in cui si incrociano tre strade e il cui nome sembra contenere l’essenza stessa delle rocce su cui poggia. Per arrivare al valico bisogna prima raggiungere Gavi e il suo vino bianco e poi assecondare curve e colline e superare Carrosio e Voltaggio, un piccolo borgo dove si dice ogni tanto qualche scrittore si rifugi per terminare i propri romanzi. Sono zone combattute tra spirito ligure e piemontese, contadini con anima da viaggiatori e marinai, che profumano nelle mani e nelle parole della loro terra. Magari non puoi chiacchierare con tutti loro dei nuovi film in cartellone o della stagione teatrale che sta per cominciare, ma sono molto meno diffidenti della gente di città. Non è difficile che cerchino di offrirti un caffè, mentre ti raccontato della vinaccia che distillano dentro casa per far la grappa, dei cinghiali che gli hanno devastato i campi, dei canestrelli fatti a mano che trovi solo in particolare bar (“se vai, dì che ti ho mandato io”) o dei lupi che sono tornati a farsi vivi nelle loro zone dopo quasi cinquant’anni. Così abituati a vedere i giovani fuggire verso le città, quando ti incontrano sembra vogliano prenderti sotto la loro ala per far sì, nel momento in cui saranno troppo anziani, che siano ragazzi come te a badare alle montagne che loro hanno amato incondizionatamente, anche se non gli sono mai appartenute. Ed è un amore ben strano e privo di confini e gelosie, se ci pensate.
Se nelle altre stagioni il Tobbio non sembra però troppo diverso dalle vette che insieme a lui puntellano gli Appennini del basso Piemonte, è d’inverno che questa piccola cima rivela tutte le sue particolarità, come un cagnolino minuto che, per proteggersi e per non mostrare le proprie debolezze, abbaia forsennato contro un mastino grande dieci volte tanto.
A gennaio, nelle giornate terse di vento freddo, una volta sulla sommità è bello perdersi con gli occhi sulla valle sottostante: riconoscere i profili degli altri monti che ti circondano, indicarsi a vicenda il luccichio squamato dei laghi della Lavagnina o cercare di dare un nome, individuando un palazzo più alto degli altri o un grande centro commerciale, ai nuclei di case immersi nel letargo della pianura.
Quando invece la valle è coperta di nuvole, è facile che siano proprio loro a farti compagnia anche durante tutta la salita. Si muovono veloci e sfumano i confini di ogni cosa, aiutati a volte dal bianco della neve che, quando abbondante, cancella negli occhi il senso di profondità. Così, senza punti di riferimento, è come trovarsi in un mondo lontano. A far vedere una foto che ti ritrae in quell’ambiente surreale, sarebbe facile raccontare agli amici più creduloni, e non in grado di notare la tua attrezzatura leggera, di quando eri al secondo campo base di una qualsiasi montagna del massiccio dell’Annapurna, pronto a rischiare una salita in cima senza l’aiuto di bombole d’ossigeno.
A differenza delle cime himalayane di sola roccia, però, sul Tobbio conifere e arbusti sono frequenti. Da novembre a febbraio capita spesso che quelli che si incontrano lungo la salita siano luccicanti di galaverna, la brina ghiacciata che li riveste completamente, indicando la direzione del vento e creando eleganti architetture naturali. Vere e proprie lance bianche che a volte ricoprono come una pelliccia gelata l’intera parete del rifugio, nascondendone il cartello verde che ne porta il nome. Una volta lì, entrati nelle piccole stanze adattate a mo’ di ricovero per gli escursionisti, si possono far asciugare i propri vestiti su una vecchia stufa a legna, prima di riprendere la discesa verso valle, ascoltando il rumore dei propri passi rompere la crosta leggera della neve.
Raggiunta la macchina, tradizione vuole che ci si fermi a mangiare in qualche paesino tra le colline. La cucina, come le persone, è un misto di Piemonte e Liguria, anche se ormai le piccole trattorie sono spesso gestite da immigrati che hanno imparato in fretta i segreti del pesto e della focaccia al formaggio. Se pure può sembrar strano, sono anche loro, che arrivino dal Sudamerica o dal Balcani, a portare avanti la tradizioni di queste valli e a evitare che si perdano del tutto, travolte da una globalizzazione senza gusti.
Seduto a un tavolo di legno, con le gambe finalmente a riposo e una birra davanti agli occhi, ti capita di frequente, dopo essere salito su questa montagna, di provare una fame bella, figlia della fatica fisica e del vento che ti ha scavato il viso. Una fame che ti fa visita solo di rado nelle grandi città, dove il mangiare è più spesso scritto negli orari che nello stomaco. Una fame vera che ti fa capire di essere tornato più vicino alla terra e più lontano da quello che di superfluo ti circonda tutti i giorni.
Paolo Bottiroli
(la foto che accompagnano l’articolo sono sempre di paolo bottiroli)