Abbiamo incontrato Edo Passarella, autore insieme a Stefano Leon Rodriguez del libro Fior Di Norvegia, un diario a quattro mani che racconta la loro esperienza in barca a vela tra i fiordi, risalendo verso Capo Nord. Abbiamo parlato di quella ma  anche di altro, della sua esperienza come velista, fotografo e filmmaker per NatGeo Adventure.

Nel libro si legge che hai navigato nelle calde acque dei caraibi, poi hai sperimentato i fiordi norvegesi; qual è il tuo ideale di navigazione? Quali sono le sensazioni che si provano a latitudini così differenti?

Personalmente esiste una sensazione dominante, tra le innumerevoli che offre la navigazione a vela, ed è la smisurata gioia. Che poi è il sentimento che ha fatto da sprone a questa mia passione. È un qualcosa che oltrepassa ogni difficoltà e fatica, quasi di atavico. Noi siamo mare. Se ci pensi bene circa il settanta per cento di questo pianeta è coperto d’acqua, la stessa percentuale di acqua che irriga il nostro organismo. Una correlazione che induce a riflettere sull’origine della vita stessa, no? Se cambiassimo nome all’acqua del mare e la chiamassimo “sangue”, abbinamento di fatto abbastanza pertinente, probabilmente ne comprenderemmo meglio l’essenzialità e la rispetteremmo di più…

Esaurita questa premessa, ti dico che i fattori che stigmatizzano ogni navigazione in base alla latitudine cui essa è riferita, quindi del clima e del meteo che vi si troveranno, sono rimarchevoli. A elencare i confronti ce ne sarebbero da riempire un libro, perciò proverò ad essere lapidario.

La presenza dei venti alisei orientali ha certamente contribuito a fare delle isole caraibiche il luogo ideale per la vela intesa come “viaggio”. Spostarsi da un arcipelago all’altro sospinti da una compagnia tanto tiepida, regolare e costante, regala ai marinai suggestioni non riproducibili altrove. L’onda è alta ma benevola, la velocità della barca sempre al limite. Uno spassoso otto volante… fra i pesci volanti. Se a ciò abbiniamo una temperatura dell’aria più che tollerabile per tutto l’anno, il risultato che si ottiene è decisamente paradisiaco, nonostante le performance fisiche e psichiche che quel genere di natura reclama siano per forza di cose abbastanza elevate.

I mari nordici sono invece più consoni ai brevi trasferimenti. La barca diviene pretesto e mezzo ideale per esplorare la terraferma, che specialmente in Norvegia concede scorci davvero idilliaci, se non unici al mondo. Molti paragonano erroneamente quei territori e i loro fiordi a certi anfratti della Nuova Zelanda. Secondo me, che le ho esplorate entrambe, il paragone non regge: il Nordland norvegese è di una bellezza insuperabile. È inutile sottolineare come oltre il circolo polare i mesi ideali per la navigazione siano enumerabili sulle dita d’una mano, sì e no. Tuttavia ti assicuro che navigarvi da metà giugno a metà agosto, con la luce solare 24 ore su 24 perciò al riparo dalle insidie del buio, è un’esperienza esaltante. Da provare. Con ciò, uno dei luoghi dove prediligo navigare è il Mediterraneo. Gli arcipelaghi siciliani in particolar modo. Per molti aspetti sono più insidiosi del Mar dei Caraibi, ma quando sbarchi sei al cospetto di una cucina e di gente unica al mondo. Ogni fatica è ripagata come altrove capita di rado, d’estate come d’inverno. Se grido un “viva l’Italia” dici che qualcuno si offende?

Come ci si sente a viaggiare per mare su un veliero dell’800 in legno di abete e in una barca di vetroresina da 5 metri che sembra “una cuccia di un cane con sopra un albero di alluminio”?

Be’, l’atmosfera che si respira a bordo dei grandi velieri è di per sé elettrizzante. Nel caso del Loyal si somma a tale emozione un ingrediente speciale, originato dal fatto che quel due alberi ad armo misto lungo 37 metri venne progettato da colui che disegnò il Gjøa, il leggendario veliero con cui Roald Amundsen scovò il celeberrimo “passaggio a nordovest”, l’esperto architetto navale norvegese Knut Johannesen Ness. Certo che tra un simile bestione, che a schiodarlo dal pontile ci vuole un team parecchio abile e volenteroso, e il minimale ed eroico cabinato di cinque metri e mezzo acquistato in loco da Stefano, tanto agile quanto limitato nei comfort, ti confesso sinceramente che scelgo volentieri il veliero di cui mi sono da poco impossessato. È un Sabre di 27 piedi, piccolo e maneggevole quanto basta ma coi necessari requisiti di comodità. Sul mare adoro viverci il più possibile, e per farlo si ha bisogno per lo meno di qualcosa che rassomigli ad una casa, benché galleggiante e con tutti i romantici limiti della vita in mare.

Qual è stato il viaggio che ti ha cambiato di più e quello che non rifaresti mai?

Il giro del mondo che ho compiuto nel 2007 su incarico del National Geographic è stato indubbiamente il viaggio più prodigo di incontri e scoperte. Un’esperienza solitaria intensa durata cento giorni. Intrapresa per documentare lo stato di salute in cui versano le acque del nostro pianeta. Zero vela in quel caso, ma viceversa una quantità esagerata di emozioni e curiosità, utili a me quanto a chi come me è in cerca di soluzioni alle nuove problematiche ambientali. Ho ricavato da quel lungo viaggio una preziosa raccolta di immagini ed interviste apparse su canali satellitari, grazie alle quali ho ottenuto un prestigioso riconoscimento nel più importante festival del film d’avventura italiano. Inoltre ho avuto modo di elaborare un dettagliato diario di viaggio che sarà a breve pubblicato. Quell’esperienza mi ha anche dato modo di portare la mia testimonianza in una serie di conferenze in Italia e all’estero, divulgando quelli che sono gli sforzi che si stanno compiendo per difendere il patrimonio idrico, sempre più fragile e bistrattato. Sforzi che qui in Italia siamo ancora lontani dal mettere in pratica, purtroppo. Sarà che siamo abituati bene, ma insistiamo col sottovalutare le questioni pertinenti l’acqua potabile. L’opposto di quanto sta accadendo nel resto del nostro pianeta. Un vero peccato.

Al tempo stesso ti confesso che forse è anche il viaggio che non ripeterei. La fatica è stata tanta. Un po’ perché odio spostarmi utilizzando aerei, e quanti ne ho presi! un po’ perché il lavoro fu talmente fitto e coinvolgente da non consentirmi il tempo per concedermi più d’un pasto decente al giorno, ed al ritorno mi son ritrovato a pesare un bel 13 chili in meno. Brutta faccenda per uno già di suo sufficientemente magro, come vedi. Malgrado ciò, dal punto di vista giornalistico ne è valsa davvero la pena. È stata un’impresa che mi ha insegnato molto. Sono passato dai bollenti ostelli di Bombay al rigido inverno australe, dalle acquitrinose campagne cambogiane ai 56 gradi celsius del deserto del Nevada, servendomi di un bagaglio nel quale, oltre all’attrezzatura video-fotografica, rimaneva giusto lo spazio per pochi etti di abiti, sempre poco adeguati ai climi predetti. Dura ma istruttiva, sì. La spiaggia di Madras, che ho ispezionato a più riprese in cerca dei rari pozzi d’acqua dolce del Coromandel, è la medesima che venne sommersa per intero dal tragico tsunami indonesiano del natale 2005. Il villaggio di nativi polinesiani nel quale ho trascorso due settimane al riparo di una capanna a tre metri dalle onde dell’oceano, è stato pochi mesi fa spazzato via da un altro tsunami devastante. Un disastro per quella splendida gente. La cittadina neozelandese di Christchurch, dove ho trascorso tanti giorni a fare preziose interviste, è stata da poco rasa al suolo per metà da un terremoto. A Sydney poi! Ricordo bene quella mattina che me la sono lasciata alle spalle seduto sopra un volo per le Tonga, col mare a bordo pista che provava ad infilarsi dagli oblò. Poche ore dopo l’intero New South Wales sarebbe stato messo in ginocchio da uno dei peggiori uragani degli ultimi decenni. Idem alle Tonga. Vi arrivai poche settimane dopo i disordini che ne misero a ferro e fuoco la capitale Nuku’alofa.

Questo per sottolineare che quando si gira il mondo bisogna sempre tener presente che la natura è vincente e la fortuna ha sempre un ruolo primario, e per quanto uno si sforzi d’essere prudente i rischi sono costanti. Con ciò non rinuncerei mai a viaggiare, e ora che grazie alla tua domanda ci ripenso per bene, tutto sommato anche quel viaggio lo rifarei volentieri, magari prendendomela un po’ più comoda…

C’è un momento durante la vostra risalita della costa norvegese in cui vi imbattete in una tempesta: come si gestisce la paura in quei momenti? Ma soprattutto: hai avuto paura?

Il mio compagno d’avventura era marinaio esperto, ancor più del sottoscritto, e devo ammettere che la sua presenza a bordo ha contribuito non poco a mantenere la necessaria calma, senza la quale ci si può trovare nei guai anche per molto meno. Per quel che riguarda la paura, posso solo dirti che senza di lei si finirebbe per accantonare le dovute precauzioni, l’indispensabile concentrazione, e sarebbe un vero casino. La paura ha un proprio ruolo nell’animo di qualsiasi esploratore serio e preparato. Di paura non si muore, mentre senza di lei si muore prima. In quell’occasione non ci fu molto tempo per abbandonarsi ai brutti pensieri. Era troppo importante sforzarsi a non commettere errori che sarebbero risultati letali. I timori sono subentrati dopo, nel ripensare ai rischi corsi. Chi fa il mio mestiere si spaventa come chiunque altro, ma sempre “dopo” chiunque altro. Tutto lì. Cambia solo la tempistica insomma. Che altro dire… posso solo aggiungere che in talune circostanze la prudenza è un lusso che non posso permettermi, ahimé.

(continua)

(tutte le foto di questo articolo sono di Edo Passarella)