Da quando abbiamo aperto NoBordersMagazine il numero di libri di viaggio che leggo è aumentato: se prima sceglievo solo argomenti e destinazioni che mi interessavano (Alaska, Alaska, Alaska, almeno nell’ultimo anno), ora sfoglio antologie, diari, saggi e guide alla ricerca del Racconto di Viaggio Perfetto.
O meglio, alla ricerca di ciò che rende perfetto un racconto di viaggio.
Cosa rende una storia (di viaggio) interessante? Cosa deve lasciarci per distinguersi dalle migliaia di racconti che girano in rete e tra gli scaffali delle librerie? La risposta più banale che sono riuscita a darmi è questa: un buon racconto di viaggio, una volta concluso, deve farci venire voglia di vedere il posto di cui parla. Non solo: deve farci venire voglia di partire. E deve farci immaginare quel dove.
Se la voglia di partire, soprattuto per chi è già predisposto, è abbastanza facile da solleticare, creare un luogo mentale simile (o migliore) del luogo visitato da chi scrive è la parte più difficile. Perchè? Quanti hanno scritto delle nuvole del Messico? Delle auto d’epoca di Cuba? Dei canguri australiani? Dei colori dell’India? I luoghi possono diventare cliché, se raccontati con uno sguardo pigro e parole consumate.
Oltre ai libri di viaggio, in questo periodo leggo anche libri che parlano di libri: di come scrivere, insomma. C’è un ottimo saggio di Roy Peter Clark – scoperto grazie al blog del Mestiere di Scrivere – che dedica un capitolo all’uso di immagini originali:
«Più letali dei cliché del linguaggio sono quelli che Donald Murray chiama i cliché visivi, ovvero le cornici ristrette attraverso cui gli scrittori osservano il mondo: le vittime sono sempre innocenti, i burocrati sono pigri, i politici corrotti e i sobborghi sono noiosi». La neve è sempre candida, la sabbia dorata e finissima, i paesaggi stupendi.
La stessa cosa succede anche nella letteratura di viaggio. E anche in Partire, la raccolta dei migliori racconti e delle migliori foto inviate a CTS per il concorso Movimenti, aperto a giovani dai 18 ai 35 anni. Incentrati sul tema dei punti cardinali, i racconti e le foto parlano di Africa, Lettonia, Danimarca, Egitto, Argentina in un susseguirsi di immagini che coincidono molto spesso con quelle che già esistono nel nostro immaginario. Ma, allora, questo cosa significa? Che alcuni viaggi sono talmente popolari da renderne impossibile una narrazione originale? Cos’è Cuba che non sia “sole e pioggia, rum e tabacco, sudore e umidità, sotto un cielo immenso con nuvole rapide” (dal racconto Luci, ombre, sorrisi di Elisa Dedola)? Perchè le notti di Nuova Delhi sono sempre “calde e speziate” (dal racconto New Delhi di Ketty Zancanaro)?
Partire significa prima di tutto lasciare a casa gli schemi attraverso cui abbiamo imparato a leggere il mondo. E fanno parte di questi costrutti anche le parole, anche i sostantivi, gli aggettivi, le metafore e le similitudini che arrivano facilmente alle dita quando dobbiamo trasferire su carta (o su schermo) quello che stiamo vivendo. Lo sforzo insito nella ricerca di parole nuove – o di un modo nuovo di usarle – è lo stesso sforzo che facciamo nell’esplorare paesi, città, continenti che non conosciamo e non ci conoscono. È una questione di scelta: possiamo viaggiare passivamente – continuando a parlare dei verdi d’Irlanda – o cercare che cosa di nostro vediamo, in quei verdi (perchè l’Irlanda è innegabilmente verde).
Partire è fatto di storie ‘passive’, di viaggi già visti, ma anche di storie originali: come quella di Michele Lancione, che parla di Dima, morto in un CIE e la cui vita è racchiusa in una scatola da scarpe in cui l’autore si concede di viaggiare. O come quella di Nikolas Kallmorgenbass, che durante il suo viaggio in Vietnam scatta fotografie mentali perchè “viaggiare senza macchina, invece, permette a volte di sentire con maggiore profondità certi momenti”. E ancora, come quella di Erica Cristina Aiazzi, che si trasferisce per studio in Danimarca e si trova faccia a faccia con una famiglia e una società radicalmente diverse dalla nostra (“io li volevo baciare, mentre loro avevano previsto una normale stretta di mano”).
Sul Pianeta Terra non è rimasto più niente da scoprire (se non gli abissi oceanici). Sarà difficile, se non impossibile, viaggiare in posti in cui nessuno è mai stato. Così ho deciso che quello che voglio, da un racconto di viaggio, non è una panoramica su luoghi di cui ho già sentito parlare o che ho già visto. Voglio racconti che, mentre mi accompagnano dentro un luogo, mi conducano anche dentro la persona che quel luogo l’ha visto.
Leggere, dopotutto, è un modo di viaggiare. E viaggiare esige uno spostamento, non solo in altri luoghi, ma anche al di fuori di noi stessi.
(Nota a margine: a ogni autore è stato chiesto di scegliere il suo ‘viaggio dei sogni’. Ha vinto a man bassa l’Australia, per le seguenti ragioni: l’Australia mi dà una sensazione di ‘ancora inesplorato’, le sue immensità, la cultura degli aborigeni è forse la più antica del mondo, per arrivare ad Ayers Rock luogo unico al mondo, mi affascinano la cultura e la fauna di questo paese, per me rappresenta la libertà, per potermi perdere tra i su0i mille volti e per poter finalmente dire hi mate a chiunque, per il deserto in 4×4, per il tratto di costa tra Sydney e Brisbane, per la barriera corallina, per scoprire l’opposto, l’irraggiungibile, la natura, perchè voglio vedere i marsupiali, perchè è agli antipodi). Ecco cosa intendo.
Partire
Antologia narrativa di geografia emozionale
Vallardi (2011)
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