Nel 2002 abbiamo pedalato lungo tutta la pianeggiante costa est da Kota Bahru a Singapore; ci siamo tornati nell’agosto 2009 sempre in bicicletta, con più allenamento e tempo e per affrontare le salite.

Confine con monsone

Limau kasturi, questo il nome della nostra bevanda preferita in Malesia, che vorremmo poter bere anche certe sere d’estate milanese quando la sete è inarginabile; trattasi di limonata a base però di lime con, a dare il tocco aspro (sour), una prugna particolare, la sour plum, appunto; è calda o fredda, ma noi propendiamo per la prima versione. Poi ci sono i succhi fatti su richiesta e al momento dei frutti tropicali più disparati, anche miscelati tra loro, dai colori sorprendenti e culturalmente difficili da accettare come la versione di succo di frutto del drago viola paramento quaresimale!

La Malesia la amiamo fin da subito con la sua pluralità di culture, cibi e bevande.

Provenienti da Sumatra, sbarchiamo nella perfetta città coloniale di Georgetown e ci dirigiamo verso Taiping, cittadina cinese ai piedi delle montagne. Sulla strada, ci fermiamo nel tipico baracchino di frutta dove, come sempre in bici, acquistiamo e consumiamo in loco tra i due e i tre chili di fibra; qui, papaya, pulasan e dokong.

Quando stiamo per andarcene, la fruttivendola, consultatasi con il marito, ci offre un durian; chi lo conosce sa che è impossibile trasportarlo in bici e cerchiamo di farlo capire anche a lei che, allora, prende un casco di banane di almeno un chilo e mezzo, ce lo imbusta e, non ci sono santi, ce lo regala.

Il giorno dopo, siamo travolti da un mega temporale con forti raffiche di vento mentre ci godiamo in estasi, appoggiati al guard-rail, i dokong, piccoli frutti che vogliamo specialmente menzionare: sono deliziosi e dissetanti. Per scampare al diluvio, ripariamo sotto la tettoia di un ristorante, dove tutti i presenti, gentili come al solito, spostano le rispettive moto per farci spazio.

Dei Malesi, uno scrittore ha detto che sono i più gentili tra gli asiatici e forse è vero.

Proseguiamo per Ipoh e, quindi, ci inerpichiamo sulle Cameron Highlands, spettacolari montagne di pietra calcarea, dove risuonano i versi delle scimmie, il rumore del becco degli hornbill, il richiamo di altri uccelli e veniamo inondati dal rosa e dal viola di migliaia di orchidee selvatiche e dal batter d’ali di tantissime farfalle, in particolare le kupu kupu (Rajah Brooke) dal colore verde-turchese e la forma allungata o a goccia.

Lasciamo le montagne e raggiungiamo il Taman Negara, il Parco Nazionale, carichi di aspettative.

Abbiamo deciso di entrare dall’ingresso di Sungai Relau, anziché dal più turistico ingresso di Jerantut, per evitare le folle che sembra lo prendano d’assalto. Questo significa avere il problema contrario, essere isolati (essendo il paese più vicino a 7 km di salita e senza mezzi pubblici di collegamento) e quindi non poter disporre di tutte i servizi offerti dall’ingresso sud.

È domenica, ma l’ufficio del parco è inaspettatamente chiuso. Siamo costretti a bussare ad una delle abitazioni dei membri dello staff. Dopo una sommaria verifica della disponibilità delle stanze, ci offrono la camerata di ciò che è chiamato ostello: pare non ci sia altro libero. Ha materassi sporchi di muffa e macchie di sangue. Gaia è schifata, Ale, più pragmaticamente, si sceglie il meno peggio. Non c’è nulla a disposizione, neppure acqua potabile o una cucina a disposizione per autogestirsi e siamo costretti a tornare indietro al paese per comprare qualche provvista “secca”.  Per fortuna, lungo la strada, numerosi alberi da frutta si offrono ai poveri viandanti; peccato che i buonissimi rambutan gialli costringano Ale-raccoglitore a una dura lotte con delle voracissime formiche rosse.

La sera, al campo-base, siamo solo noi e le scimmie.

Riusciamo, comunque, a fare l’attività decisa al momento del check-in: safari notturno sul fuoristrada dei rangers. Per cercare di vedere il maggior numero di animali, la visita avviene nella confinante piantagione di palma da olio anziché, come pensavamo, all’interno del parco; a causa della pioggia, vediamo però solo cinghiali, un felino locale (la civetta malese), un gatto-leopardo, un gufo e due cani selvatici, molto simili ai dingo. Siamo noi, la jeep e ben tre accompagnatori malesi, nessuno dei quali parla inglese.

Non paghi, il giorno dopo affrontiamo il trekking per Gua Gaja, la grotta degli elefanti; la guida è un ragazzetto con il cerchietto-reggicapelli che hanno certi calciatori nostrani e che non parla una parola di inglese; scatarra per tutto il tempo, ma quantomeno sa il fatto suo nella jungla.

Il trekking è disagevole e conduce ad un massiccio di arenaria al cui interno ci sono caverne dove gli elefanti si ritrovano spesso e i loro escrementi sono lì a testimoniarlo. Illuminati dalla torcia,   centinaia di pipistrelli nella grotta sottostante volano all’impazzata.

È con noi anche un misterioso “secondo” più gentile che ci aspetta quando, di ritorno, la guida decide di staccarci, incurante di ciò che potrebbe capitarci. Camminiamo sempre nel fitto di una jungla fangosa, habitat ideale di miriadi di sanguisughe dalle quali veniamo presi d’assalto, soprattutto Ale che se ne ritrova una anche sulla pancia; una volta tolte, le ferite continuano a sanguinare a lungo: ecco spiegate le macchie sui materassi.

Non contenti, decidiamo di passare la notte in un capanno di avvistamento, nella jungla profonda, in prossimità di un deposito di salgemma che spesso attrae gli animali: la speranza è di vedere la famosa tigre, avvistata spesso in questa zona del parco.

Vengono a prenderci ancora in tre, forse qui funziona come per le nostre pattuglie, ma poi solo un ragazzo resta con noi: non si può restare soli nel capanno.

Appena arriva la sera, siamo improvvisamente travolti da suoni indecifrabili che raggiungono decibel quasi insopportabili: ricordano ora un citofono da incubo, ora un’acuta tromba da stadio, ora una sirena, ora un antifurto per auto; sono tutti gli animali, piccoli e grandi, che si svegliano al calar delle tenebre.

Nel buio completo, consumiamo il nostro frugale pasto puntando ogni tanto la torcia per vedere se qualche animale si fa vivo. Gaia, nelle assordanti tenebre totali, ha paura anche solo a scendere la scala esterna che conduce al piano inferiore, dove si trova il wc. Non avvistiamo niente, probabilmente a causa della pioggia; ma i suoni e l’esperienza del dormire nella foresta malese sono davvero indescrivibili e memorabili, sebbene il giaciglio sopraelevato sia suggestivo quanto spartano e per arrivarci altre sanguisughe ci si attacchino ovunque.

La mattina, il nuovo concerto dell’alba è aperto dalle scimmie,  gibboni e altri tipi di primate che qui vivono.

Il Taman Negara sembra essere ciò che resta della foresta originaria più antica del mondo, circa 130 milioni di anni, più antica anche di quella africana o amazzonica, preservatasi grazie al fatto che le glaciazioni non l’hanno toccata e per l’assenza di eruzioni vulcaniche. Per questo ci sono alberi ed  insetti di dimensioni gigantesche, fermi alla preistoria dell’essere umano.

L’attrazione principale di questa parte del parco sembra però essere, per la maggioranza dei visitatori, un particolare tipo di pesce, il Tor Tombroides (Kelah in lingua locale), dalle scaglie lucenti che lo fanno sembrare di bronzo; può raggiungere i 30 kg di peso ed è in via di estinzione. I turisti malesi vengono qui solo per lui.

Lasciamo lo strano parco con varie cicatrici di sanguisuga, salutati dai cinghiali che ci attraversano la strada in pieno giorno: gatti, antichi come il Siam, ci guardano sornioni dai baracchini di frutta ancora chiusi.

La nostra destinazione è ora la costa est.

A Kuala Besut, dopo tre notti nelle paradisiache isole Perhentian, inforchiamo le bici e raggiungiamo in una volata Kota Terengganu attraversando l’imponente fiume Sungai Terengganu su un ponte lunghissimo, a 4 corsie e con tanto di pista ciclabile.

Dormiamo in un minuscolo hotel che ci piace per la pulizia, l’accoglienza della sua proprietaria (cinese) e perché non ci sono turisti occidentali, tutti negli hotel segnalati dalla guida o in quelli di lusso.

K.T. è una città piacevole che ha il suo punto di forza in una Chinatown architettonicamente splendida e ben ristrutturata che offre tanti negozietti in cui curiosare, ma soprattutto un ristorante con gustose specialità locali cucinate e servite in claypot, padelle di terracotta. Ci torniamo anche la sera.

Il mercato centrale è uno spettacolo: diviso nei vari settori, vi si trova ogni cosa; ogni genere di cibo, dolce e salato, fritto o alla brace: di verdura; di frutta; di pesce secco, il keropok. C’è anche lo zucchero di palma, venduto in pesantissimi dischi di ca. 2 cm di spessore.

A Kuala Terengganu attendiamo anche noi, come molti altri, un bus notturno che ci riporti sulla costa ovest da dove passare il confine per entrare in Thailandia. Qui ad est, infatti, transitare nelle provincie meridionali thai è molto pericoloso a causa delle velleità secessioniste di matrice islamista di alcuni gruppi armati; sembra che ultimamente abbiano rotto anche la tregua che proteggeva i turisti e sparato anche a bambini e monaci buddisti.

Domani, poi, inizia il Ramadan che purtroppo spesso marca l’inizio delle ondate di violenza.

Sopravviviamo al viaggio in bus; giungiamo a Sungai Petani, nostra destinazione, alle 3.50 a.m.! Completamente tramortiti dal sonno, cerchiamo i bagagli tra la selva di quelli degli altri passeggeri e tiriamo giù le bici semi smontate, sotto lo sguardo imperturbato del guidatore. Il bus riparte.  Restiamo solo noi, due auto che aspettano qualcuno, un tassista deluso che se ne va poco dopo, un paio di cani.

Ci mettiamo al primo piano di una sorta di centro commerciale, tutto chiuso ad eccezione di un rivenditore di mobili e motorini, dove il custode dorme su uno dei pezzi esposti.

La civiltà malese ci consente di darci una lavata (c’è un bagno aperto e pulitissimo), poi Ale fa un giro di ricognizione e vede una luce che sembra provenire da un locale.

Armi e bagagli, scendiamo: è un ristorante cinese. Enorme. Già quasi pieno. Con i panini cinesi appena tolti dal vapore. E il tè caldo.

Alcuni avventori leggono il giornale e bevono tè, anche se sono solo le 5. Ordiniamo due caffè e due panini dolci, ma per questi dobbiamo aspettare perché sono così caldi che non vogliono servirli. Alle prime luci dell’alba, partiamo: la Thailandia ci aspetta.

Ad Alor Setar, ancora in Malesia, ci troviamo nel mezzo di uno straordinario banchetto di strada, allestito per il primo giorno di Ramadan. Già dal pomeriggio, i piatti vengono messi in esposizione e non resistiamo all’acquisto; torniamo la sera, all’ora del tramonto, quando sta per terminare il digiuno ed è un’atmosfera da vera sagra paesana, con famiglie intere che acquistano sacchetti di cibarie e si predispongono intorno ai tavoli, aspettando pazientemente che arrivi la chiamata del muezzin. All’ora fatidica, iniziano tranquillamente a mangiare; noi ci godiamo lo spettacolo del rito, sentito e collettivo.

La mattina piove a dirotto. Consumiamo la colazione e attendiamo certi che in un paio d’ore tutto si risolva. Giochiamo a dadi per due ore e ancora piove. Alla speranza si sostituisce la determinazione: partiamo. Al diluvio si alterna la pioggia, non c’è mai traccia di cielo all’orizzonte. Temiamo che non smetterà che a dicembre, termine del monsone; la strada, poi, è la superstrada che collega Malesia e Thailandia, dove passano anche molti mezzi pesanti che sollevano onde fantozziane. I canali lungo la strada tracimano.

Arriviamo, completamente zuppi, in frontiera. La doganiera malese è malesemente gentile e rapida, mentre quella thai non parla inglese e ci manda a compilare dei foglietti, nonostante le mostriamo di avere già il visto. Glieli restituiamo, anche loro zuppi.

Al di là della barriera, la Thailandia: acqua fitta, donne dalla dubbia professione che osservano i passanti da sotto i porticati, mentre grossi pick-up dai vetri oscurati procedono lenti. Il ricordo di un passo del libro Un giorno un indovino mi disse di Terzani si materializza sotto i nostri occhi.

L’asfalto continua ad essere ottimo e la pioggia abbondante. Siamo sulla costa ovest, quella più battuta dal monsone, evidentemente già arrivato. Proseguiamo fino a Sadao, dove abbiamo il primo impatto con i caratteri thai, a noi incomprensibili, e l’ignoranza dell’inglese anche nell’unico hotel che troviamo. Capiamo che è un hotel solo perché l’insegna reca i numeri arabi “24” ad indicare che è sempre aperto, anche se Ale già cerca di decrittare la nuova scrittura, nonostante sia fradicio fino alle ossa, mentre Gaia ci si fionda dentro grondante e prende una stanza.

Scopriamo di dover spostare le lancette dell’orologio un’ora indietro e passare dall’anno islamico 1430 a quello buddista 2552 (palindromo perfetto): e tutto in soli 65 km!

Gaia e Alessandro

Le foto di questo articolo sono le digitalizzazioni thailandesi delle diapositive scattate da Gaia e Alessandro durante il loro viaggio