Spasmodica attesa, impotenza, catastrofismo e rabbia si alternano e stratificano quando siamo in attesa che, all’aeroporto, tra gli altri arrivino anche i nostri bagagli. Sensazioni precise e appuntite, camuffate da indifferenza e statuario blocco muscolare alternato ad ipercinesi.
Quando proprio non arrivano, dalla fissazione vacua del desolato nastro, cosparso dalle ormai pochissime borse che inutilmente girano in tondo, l’attenzione si sposta verso la ricerca di altri compagni di sventura con i quali conservare residui di speranza; ultima arriva poi l’agitazione a prendere verbo, in un alternarsi di “lo sapevo”, “io non volevo venirci”, fino al più classico, nichilistico “niente più viaggio”!
È solo allora che passiamo all’azione e affrontiamo il lost and found, l’ufficio bagagli smarriti.
Questa volta la scena si è svolta in Tanzania, solo che all’aeroporto di Dar Es Salaam non esiste un nastro trasportatore e i bagagli li ammonticchiano in un angolo. Certo, l’idea è sempre che ognuno prenda il suo. O almeno si spera. Infatti, Gaia prende la sua borsa e la sua bicicletta, mentre io non ho nulla da prendere: né bici né borsa e il lost and found è una scrivania distante 5 metri da tre distinti assembramenti di bagagli provenienti da altrettanti voli; poco oltre la scrivania, valigie, borse e scatoloni di ogni tipo formano un sentiero che conduce ad una stanza 10×10 stipata di l&f. L’intero spazio adibito a ritiro bagagli, zona di arrivo ed uffici (doganali e non) è grande quanto un monolocale milanese spacciato per open space.
L’addetto indica il mucchio dicendo che, lì, ci sono tutti i bagagli del nostro volo. Non funziona Internet e la ricerca muore sul nascere. Se non altro non perdiamo tempo. Il massimo che otteniamo è un incoraggiante “Dovrebbero arrivare domani pomeriggio” e un un pezzo di carta scritto in ki swahili: intellegibile per noi è solo il numero di telefono dell’ufficio l&f e il nostro nome, il resto è questione di fiducia… ci vediamo domani.
Domani è un altro giorno, si sa, e borsa e bici arrivano davvero con il volo quotidiano della compagnia con cui abbiamo viaggiato.
Le prospettive cambiano. Dar che ci era parsa una città incasinata e con poche attrattive ci sembra ora una puzzle tutto da scoprire.
Il primo giorno sui pedali incontriamo una cicloviaggiatrice orientale (Taiwan?) anche lei carica di tutto l’occorrente per la sopravvivenza di un non africano nella savana; le nostre strade si biforcano subito, noi andiamo a nord via Dodoma, lei a sud. Peccato perché ci siamo piaciuti a prima vista, come spesso succede tra viaggiatori. L’incontro è stato fugace, ma ognuno si sente più sicuro e pedala meno solo. L’Africa in bicicletta suscita un mix di avventura e paura.
Lasciata Dodoma, cittadina gradevole e accogliente, capitale solo sulla carta, l’asfalto diviene solo un vago ricordo, ora miraggio, ora desiderio frustrato. Percorriamo la direttrice nord, ma dopo un giorno di sterrato brutto, continuiamo a trovare lunghissimi tratti di pista sassosa, dove rimbalziamo e zigzaghiamo sulle pietre, alla quale si alterna una pista sabbiosa, dove le ruote affondano e non resta che spingere i nostri cancelli.
Per alcuni chilometri l’altopiano è coltivato a vigneti, cosa che fa sempre una certa impressione in Africa: la tentazione di gettarsi nel business del vino è arrivata anche qui, ma i risultati fin’ora sembrano pessimi. Ci chiediamo se non sia meglio sfruttare l’uva per quello che è: frutta ottima. Non crediamo che il cittadino africano medio senta la mancanza del vino, molto di più abbiamo sentito racconti di mancanza di energia elettrica, infrastrutture (solo il 6% della rete viaria è asfaltato in Tanzania), acqua corrente e prezzi della benzina alle stelle (il costo al litro è identico a quello italiano). Esiste un problema nutrizionale, oltre che la fame: basta sentire le notizie che qui arrivano (da noi in Italia le “notizie che contano” sono altre) della devastante carestia nel Corno d’Africa e pensare a come i vicini del Kenia abbiano “dedicato” enormi appezzamenti di terra alle coltivazioni di fiori per l’export occidentale, sottraendoli all’agricoltura; per ogni bel mazzo sul tavolo del salotto, c’è qualche africano senza cibo e senza casa, che lascia spazio malgré soi ai fiori recisi.
La pista si snoda tra paesaggi incontaminati, pura savana di acacie, baobab che non ti stancheresti mai di ammirare e altre piante che la nostra ignoranza non riconosce. Attraversiamo coltivazioni e alcuni villaggi di poche capanne o tipologie di abitazione differenti, il pozzo e qualche spaccio dove possiamo rifornirci anche noi. Impariamo presto a riconoscere, nei villaggi più strutturati, dei baracchini che servono tè e chapati la mattina e alcune pietanze semplici per pranzo: riso o polenta con “chicha” (spinacio africano), fagioli, spezzatino. Tutto è cotto al momento e dunque igienicamente sicuro. Soprattutto è ottimo e permette di condividere l’esperienza con i locals, sempre curiosi quando non perplessi dalla nostra presenza al loro desco, molto più sporchi e sudati di loro.
È chiaro che da queste parti non passano turisti o meglio i pochi che ci passano sono sui bus che, slittando, sfrecciano travolgendoci di polvere e obbligandoci a soste forzate. Bus che non effettuano nessuna fermata (forse, neanche per pisciare) nei villaggi. Viaggiare in bicicletta, invece, costringe noi a dormirci.
L’accoglienza del capo villaggio oscilla sempre tra il titubante (“Volete veramente dormire qui? Ho capito bene?”) e il super ospitale (“Volete l’acqua per lavarvi?” “Ecco là ci sono i gabinetti”, “Avete bisogno di qualcos’altro?”), le persone ci guardano con curiosità e sono sempre gentili, mentre tutti i bambini (in un villaggio 611!) ci accerchiano durante il montaggio tenda: noi ostentiamo sicurezza anche se le centinaia di occhi infantili, riedizione dei pensionati che valutano i lavori stradali, ci intimoriscono un poco. E accantoniamo la stanchezza per un po’.
Il viaggio più impervio del previsto ci porta dover passare una notte nelle giungla, in cima a un altura. È una notte senza luna, limpida, e le stelle sembrano posarsi tutto intorno a noi; la meraviglia vince la paura.
Quando arriviamo a Babati riguadagnamo l’asfalto e ci concediamo una camera con bagno per lavare via un po’ della polvere che ci copre. Le bici sembrano fatte di terra rossa, ma non emettono ancora nessun cigolio di lamento e ne approfittiamo per lasciarle così.
Ad Arusha, città vera e capitale dei safari, organizziamo il nostro in alcuni parchi nazionali. La meraviglia della natura e degli animali nel Serengeti e Ngorongoro ci lascia senza parole e non ne ne usciremmo più. Nonostante dividiamo l’esperienza con un’altra coppia di olandesi e utilizziamo campeggi basic, i costi sono comunque rilevanti, specie se paragonati con quanto spendiamo normalmente.
Gaia e Alessandro
Siamo una coppia di oltre quarantanni che ama viaggiare, meglio se con le nostre biciclette, per il mondo (provate a chiedere magari ci siamo stati!). Entrambi lavoriamo nel sociale e questo determina anche il nostro modo di osservare i paesi e di incontrare le persone che li abitano. Gaia è vegetariana mentre Alessandro se ha fame diventa ultra irascibile e mangia qualunque cosa. Nel 2009 abbiamo ciclo-viaggiato per 11 mesi, l’esperienza per chi fosse interessato è tutta raccontata qui: http://gaiale.blogspot.com. (Le foto all’interno dell’articolo sono digitalizzazioni delle loro diapositive)
Le foto di questo articolo sono scattate da Gaia e Alessandro durante il loro viaggio.