Atterro per la prima volta a Hong Kong in un’afosa giornata di metà settembre, dopo 14 ore di volo da Monaco di Baviera. Tre anni prima iniziavo un corso di laurea triennale in “Storia, culture e civiltà orientali” alla facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna. Tra tutte le lingue avevo scelto il cinese. A pensarci bene non so nemmeno esattamente il perché. Forse per un’attrazione inconscia verso qualcosa di sconosciuto, forse solo per la voglia di abbandonare le scienze e dedicarmi a qualcosa di completamente diverso, per conoscere un mondo nuovo e, in qualche modo, misterioso. Non appena laureatomi preparo uno zaino riempiendolo più o meno a casaccio: qualche cambio di vestiti, un cambio di scarpe, una giacca pesante, libri. Compro un biglietto aereo di sola andata e parto senza guardarmi troppo indietro. Destinazione: Cina.
Appena metto piede fuori dal terminal dall’aeroporto di Hong Kong vengo investito da una vampata di calore umido e appiccicaticcio. Proprio accanto all’uscita c’è il terminal dei bus, dove prendo un biglietto per un bus double-decker diretto a Kowloon (九龍) quartiere di Hong Kong il cui nome “nove draghi”, fa riferimento ad otto colline ed un imperatore cinese. Lo sbalzo termico rispetto al capoluogo bavarese è di più di venticinque gradi e sto grondando sudore da tutti i pori. Entro nell’autobus e salgo al piano superiore. Fuori dal finestrino, palazzoni a forma di enormi batterie da nove volt si susseguono lungo la costa sulla mia sinistra. Di fronte a me siede una coppia di turisti, lui asiatico, lei francese, grondanti sudore tanto quanto me. Li guardo finire quattro bottigliette d’acqua in meno di mezz’ora. Fa davvero caldo.
Scendo dall’autobus a Tsim Sha Tsui (尖沙嘴, normalmente abbreviato in TST), l’area più meridionale di Kowloon, e sono troppo attratto dalla città per dare peso alla mole dello zaino e alle gocce di sudore che hanno inzuppato i miei vestiti. Vengo travolto dalla vita caotica delle vie della metropoli, impressionato dagli immensi palazzi, dalle strade a quattro corsie e dalla miriade di persone che, come un fiume in piena, si riversano sui marciapiedi e riescono a farmi sentire piccolo e insignificante. Mi sembra di essere tornato a New York il giorno della vigilia di Natale di quattro anni fa: il sentirsi microscopico in un oceano di persone che non vedrai mai più nel corso della tua vita. Qui, però, percepisco subito qualcosa di diverso, di intangibile e difficilmente identificabile: un amalgama di profumi, suoni, voci e colori, a volte intensi, a volte subdoli, qualcosa a cui, con il tempo, darò il nome di “sapore dell’Asia”. Qualcosa che, fin da subito, mi fa inspiegabilmente sentire a casa.
Come tante metropoli, Hong Kong è una gigantesca meltin’ pot di genti diverse. Per capirlo è sufficiente entrare per cinque minuti al piano terra delle Chungking Mansions, un palazzone in cemento stracolmo di ostelli, ristoranti indiani e negozietti di cianfrusaglie di ogni tipo: verrete accolti – quasi assaliti, a dire il vero – da ogni tipo di venditori tra cui spiccano, peculiare caratteristica del quartiere, i sarti, che vi proporranno di confezionarvi uno smoking a prezzi da urlo per il vostro prossimo colloquio di lavoro in città. Se volete risparmiare sull’alloggio o mangiare uno dei curry più buoni di Hong Kong, questo è il posto giusto. All’interno delle Chungking Mansions convivono gruppi di pakistani, cinesi, indiani e africani, ognuno con la propria attività, onesta o meno. Per farsi un’idea di quanto sono grandi queste comunità, basta fare una passeggiata al sabato nel grande Kownloon Park, dove si può incontrare gran parte dell’immensa popolazione di origine filippina che vive nella zona. A migliaia si radunano nel giorno di festa per banchettare, danzare e cantare per i viali del parco, stesi su grandi lenzuoli bianchi, in mezzo a pile di cibo precotto portato da casa e condiviso con famiglia ed amici.
Spesso, alle prime ore del mattino, è possibile incontrare gente del posto e turisti che si radunano per ammirare l’alba seduti su una panchina in riva al mare al Ferry Pier del Victoria Harbour, il molo dei traghetti in fondo a Nathan Road, la prima strada costruita sulla penisola di Kowloon dopo la cessione del territorio alla corona britannica nel 1860, osservando il sole sorgere illuminando i grattacieli di Central, il quartiere commerciale di Hong Kong sull’altro lato dello stretto.
Anche la vita notturna è degna di nota: due passi a tarda sera in Temple Street, a nord del parco, solitamente terminano in una lunga nottata passata all’aperto a curiosare tra banchetti, ristorantini economici e piccoli negozi aperti tutta la notte. È qui che molti abitanti di Hong Kong si ritrovano per una cena alla mano. Pur essendo economici, gran parte dei ristoranti offre cibo di qualità, specie per quel che riguarda il pesce fresco o i crostacei. Se cercate un adattatore per la corrente, l’ultimo film di arti marziali in cantonese, qualche diavoleria elettronica a basso costo o una copia dei poster maoisti del periodo del “Grande Balzo in Avanti”, date un’occhiata alle bancarelle del mercatino che parte da Temple Street e raggiunge il tempio di Tin Hau: non rimarrete delusi.
La mattina del mio primo giorno a Hong Kong mi sveglio quasi soffocato nella claustrofobica stanza di quattro metri quadrati, senza finestra, di una guesthouse al quindicesimo piano delle Chungking Mansions. Il caldo è già insopportabile a quest’ora. Esco presto, scavalcando il gestore dell’ostello che, sdraiato su una stuoia, dorme profondamente sul pavimento del corridoio, le scarpe riposte poco lontano, davanti alla porta della mia stanza (situazione tipica alle Chungking Mansions). Esco in cerca di una colazione, ma gran parte dei negozi a quest’ora sono ancora chiusi e non apriranno prima delle dieci. Decido così di arraffare due muffin a un 7-Eleven (la più grande catena di convenience store al mondo), per poi dirigermi verso il porto a prendere il traghetto diretto a Central che attraversa il Victoria Harbour, lo stretto che separa Kowloon da Hong Kong Island. A volte, al mattino, una fitta nebbia si leva dall’acqua, senza però impedire completamente la vista sulle cime dei grattacieli e dei palazzi di Central illuminati dal primo sole, che sembrano così navigare in un mare lattiginoso .
Scendo dall’imbarcazione in legno verniciato di verde e mi dirigo verso il Victoria Peak, la collina che fa da sfondo allo skyline di Central, ma vengo inghiottito dagli infiniti passaggi sopraelevati e sotterranei che collegano i lati delle strade passando all’interno di centri commerciali, banche ed uffici. Finisco per perdermi nei Mid-Levels, prestigioso quartiere residenziale a sud di Central, che ospita il Central-Mid-Level Escalator, la scala mobile esterna più lunga al mondo, cercando senza speranza di trovare il Peak Tram, il treno d’epoca di colore rosso con interni in legno che collega la base della collina alla piattaforma panoramica sulla cima. Un cartello mi viene in aiuto. Seguo le indicazioni e in una ventina di minuti raggiungo la stazione, dove compro un biglietto per la monorotaia e per l’ingresso alla piattaforma panoramica, moderno edificio in vetro e cemento. Aspettando il treno, do un’occhiata ad alcune vetrine con foto e cimeli d’epoca accompagnati da alcune brevi didascalie che raccontano la storia del Peak Tram.
La vista dall’interno dei vagoni, lungo la salita, è un po’ deludente, specialmente a causa dei grandi poster pubblicitari semi-trasparenti incollati – recentemente, mi dicono – sull’esterno del tram, che coprono parte dei finestrini creando un effetto da “finestra del bagno” e impedendo la visuale verso l’esterno. In ogni caso il campo visivo, per gran parte della salita, è bloccato dai palazzi che nel corso degli ultimi decenni sono stati costruiti ai lati delle rotaie. Sulla cima, però, il panorama è davvero appagante: lo sguardo spazia su tutto il Victoria Harbour con i grattacieli luccicanti di Central in primo piano, la penisola di Kowloon oltre lo stretto e, in lontananza, il profilo verde delle colline dei New Territories . Un consiglio: evitate di comprare il costoso biglietto per la piattaforma panoramica; l’edificio di fronte ha due terrazze (di cui una munita di cannocchiali) altrettanto panoramiche, gratuite e molto meno frequentate.
Per lasciarsi alle spalle la ressa, consiglio di incamminarsi sul Peak Trail, facile sentiero di circa tre chilometri che si svolge ad anello intorno alla cima del colle, immergendosi in un paesaggio di boschi, laghi e torrenti abitati da una grande varietà di fauna e flora. Il percorso si snoda tra boschi di bambù e alberi della gomma indiani, palme e alberi della canfora. Per la prima volta in vita mia vedo delle liane, appese come lunghi serpenti ai rami degli alberi della gomma, sopra al sentiero. Radici aeree ovunque: singole, intrecciate, annodate. Ce ne sono di tutti i tipi. Per la prima volta ho la sensazione di essere in una giungla. Hong Kong è una città enorme, con la giungla urbana di edifici ipermoderni di Central, i casermoni fatiscenti di Kowloon e le casette accatastate l’una sull’altra dei bassi Mid-levels; poco distante, però, si trovano giungle vere e proprie, fitti labirinti di alberi, piante, fiori, frutti, muschi ed animali. Modernità e tradizione si fondono in un amalgama dai tratti tutti asiatici: basta alzare lo sguardo per rendersi conto che le impalcature dei grattacieli di Central non sono altro che complessi incastri di bambù e corde. In alcuni vicoli tra Central e i Mid-levels poi, la vita sembra svolgersi al rallentatore, con una calma e tranquillità che sembrano uscite da un dipinto ad olio del XIX secolo o da una foto ingiallita di un viaggiatore d’inizio Novecento.
Un ripido sentiero scende fino alla base della collina attraversando gli Hong Kong Zoo and Botanical Gardens. Da lì mi dirigo verso la torre della Bank of China da cui, salendo al quarantatreesimo piano, si gode una bella vista sul panorama del Victoria Harbour. Poco dopo mi ritrovo a curiosare nei centri commerciali di Central, edifici futuristici illuminati da migliaia di luci al neon che si riflettono sui pavimenti color crema pallido lucidati a specchio, tra lussuosissimi negozi di moda e labirintici settori dediti alla vendita di pc ed elettronica.
Ritorno in traghetto a Kowloon e mi concedo una cena a base di tagliolini al Temple Spice Crab, uno dei tanti piccoli ristoranti di Temple Street. Dopo cena sono indeciso sul da farsi, così entro nel primo pub che incontro (il Ned Kelly’s Last Stand, frequentato principalmente da turisti) attratto dalla musica jazz suonata da un gruppo di simpatici signori di mezza età. Mi siedo al primo tavolo libero assieme a un gruppo di ragazzi, ordino una pinta di sidro e mi rilasso ascoltando la musica e scambiando due chiacchiere con gli altri. Scopro che il ragazzo seduto di fronte, poco più vecchio di me, è un mio concittadino, che da qualche anno vive e lavora a Hong Kong, condividendo una casa con altri expats: una ragazza spagnola e due finlandesi. Bolzano non è certo una grande città, ma, pur avendo amici in comune, non ci siamo mai visti prima. Brindiamo per festeggiare, poi ci spostiamo a casa loro, assicurandoci di passare al più vicino 7-Eleven per fare scorta di birra Tsingdao. Karaoke su megaschermo, musica a tutto volume e fiumi di birra sul tetto di un palazzo frequentato da prostitute e dai loro clienti (motivo per cui – mi dicono – il prezzo dell’affitto si mantiene a livelli accettabili). Inutile nasconderlo: mi sono già innamorato di questa città.
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Philipp Dalmolin nasce a Bolzano il primo gennaio 1986. Fin da piccolo i genitori lo portano in giro per il Mediterraneo: Grecia, Tunisia, Egitto. I suoi viaggi lontano dalla famiglia iniziano a 16 anni con un biglietto Interrail per Spagna e Portogallo e continuano poi con un anno di studio negli USA, a 17 anni. Finite le superiori si trasferisce a Bologna, dive si iscrive al dipartimento di “Storia, culture e civiltà orientali” della facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 2008 parte per la Cina, dove resterà per circa un anno. Ritornato in Europa si trasferisce a Vienna per due anni, dove lavora nel campo dell’online marketing. Dal 2011 vive nella sua città natale di Bolzano.