Quanti atlanti sono stati buttati dopo il 1989. Buttati perché troppo lenti a seguire le cadute e i frazionamenti del proprio presente: quello che si trovava non corrispondeva più a quello che si sapeva e quello che si cercava sembrava così nascosto dai confini tratteggiati in nero. Subito, si corse a comprare nuove cose, nuovi vestiti e nuovi mondi. Dopo, le scosse d’assestamento durarono per altri anni e anche in altri luoghi, con una dissoluzione fatta di città che spariscono e di nuovi stati che fioriscono dal terriccio rosso. Oggi, ascoltando la nostalgia, non si riesce ancora a decidere tra la strada dell’imparare o quella del dimenticare.
Qualche tempo fa ho letto un libricino di Paolo Nori dove l’autore spiega quanto per lui sia semplice confondersi tra la parola Risorgimento e la parola Rinascimento. A me succede la stessa cosa tra Slovenia e Slovacchia. Ogni volta devo mentalmente ripetermi slov-enia-slov-acchia e visualizzare la loro collocazione geografica prima di connette correttamente parola e luogo. In questo caso non posso neanche contare sul richiamo all’iconografia delle loro bandiere. Entrambe tricolori bianco-blu-rosso, con lo stemma nazionale collocato in alto a sinistra. In quello sloveno però è rappresentata una montagna: il monte Tricorno.
Perché se uno pensa alla Slovenia, pensa alle montagne, alle grotte e alle terme. Ma soprattutto alle montagne. Ecco: l’occasione che mi ha portato in questa nazione è il mare. Continuo ma antitetico a quello italiano così tanto frequentato. Un litorale roccioso di neanche 50 Km lungo il mar Adriatico. Vista dall’Italia la Slovenia sembra essere uno stato trasparente, leggero tra più spinte che lo circondano. Premuto dall’Altopiano Carsico e dalle Alpi, infilzato da Trieste fino a spingerlo in Istria, il suo territorio si arrocca verso l’est Europa in un briciolo della pianura pannonica; dove il vento dei Balcani è ancora diluito dal respiro mitteleuropeo.
Qui una delle magliette più vendute nei negozi esclama: Slovenia, since 1991. Da quella data, sua capitale è Lubiana. Vecchia città al centro di uno stato nuovo, tempestivamente sceso dal carro della guerra per prendere l’indipendenza. Dal castrum romano di Emona a perla di periferia dell’impero socialista jugoslavo, terremoti geologici e terremoti politici ne hanno ciclicamente ridisegnato le sue forme e il suo valore. Se sulle carte e sulle mappe è facile cambiare confini e colori, sulla pelle dei luoghi la geo-politica è una faccenda più stratificata, evidente sulle facciate dei palazzi che parlano lingue diverse, imparate in epoche differenti, e che provano ad esprimersi a gesti.
Lubiana è la più piccola capitale europea. Un panorama che colpisce per la varietà percepibile nella familiarità della sua dimensione. Qualcosa di austro-ungarico, di un orgoglio che è imperiale, o forse parodia tirolese, si unisce con curve già ortodosse e grafismi Sezession, mentre il ricciolo Barocco delle chiese rosa e bianche, con la doppia torre campanaria chiusa con lo stagno, stempera i riflessi marziali sotto i tanti ponti connettori. Il triplice ponte Tromostovje, il Trnovo most, il Čevljarski most che è il ponte dei calzolai, il ponte dei macellai che è anche quello dei lucchetti innamorati, e soprattutto il Zmajski most che è il ponte dei draghi.
Al centro, come punto di controllo accampato sopra una verde collina c’è il Ljubljanski grad, il castello della città medioevale. Intorno, come lunghe code curvilinee, le vie centrali e il corso del fiume Ljubljanica. L’architetto Jože Plečnik, che vi mise mano nel XX secolo, pensa alla città come ad una nuova Atene, aggiornata con un gusto tra Vienna e Praga, e ne ridefinisce i lineamenti con un intervento sottile sul lungofiume, misurando con la distanza tra alberi e lampioni i ritmi delle strade; delle bande che suonano già musica gitana, delle bancarelle del mercato centrale, delle università, della filarmonica, delle palestre della pallamano femminile.
Punto di snodo della città, tra improvvisa modernità e negozi nascosti, è Prešernov trg, la piazza rotonda sulla quale si impone la statua di France Prešeren. Poeta romantico, è l’eroe nazionale sui cui piedi ci si siede, lo spettinato i cui versi sono declamati anche sulle pareti dell’ostello, e il cui profilo è riprodotto sul retro delle monete da 2 euro. Spendete alcune di queste nei bistrò lungofiume, dove guardare i lenti battelli passare, e per concedervi qualche fettina di prosciutto crudo del Carso, accompagnata da una birra Union o dalla gelida Laško Pivo. Se ne avete il fegato, concedetevi anche un bicchierino di Slivovitz.
Appena ci si allontana dalle piazze centrali, le vie iniziano a farsi più strette, più tortuose; più pensanti all’est Europa. I muri si fanno più vissuti e le panchine solitarie. Vicoli che sembrano ciechi si infittiscono in trame altalenanti, mentre portoni semichiusi si aprono su cortili dimenticati che fingono siano sempre le due del pomeriggio. Alzando lo sguardo, coppie di scarpe lanciate sui cavi della corrente e fili colorati che disegnato eterni arcobaleni, definiscono le coordinate effimere di una povertà imparata dignitosamente. Sbocco autunnale è il grande parco Tivoli, che rallenta ancora di più il passo per gioire dell’affare fatto sabato al mercatino.
Oltrepassato il perimetro del fiume si sente la periferia già pronta ad avanzare, sparute villette dal tranquillo respiro residenziale si alternano con palazzoni sovietici, sorvegliando l’incolumità del centro storico dai ritmi da metropoli qui mai attecchiti. Nel caso del quartiere Metelkova mesto il processo è inverso. Una vecchia caserma militare dell’esercito popolare jugoslavo, della quale vengono occupati gli edifici e colorate le pareti; trasformandola in un’autogestione urbana dove la libertà espressiva sembra voler regolamentare l’esigenza di luoghi altri. Portandoli a tutti, soprattutto per terminare le notti vicino alla stazione ferroviaria.
Ecco uno dei diversi modi che la città ha di spiegare il riconvertire: il vecchio in nuovo, la memoria in domani; e il fatto di essere così tascabile l’aiuta. Il modo forse più chiaro è quello legato all’origine delle tante immagini del drago, ricorrenti come simbolo della città. I primi turisti del mito, Giasone e i suoi Argonauti, arrivarono all’ultimo livello della storia dalla Colchide alla sorgente della Ljubljanica fino alla palude che era Lubiana, dove uccisero il mostro verde che faceva da padrone di casa. Poi, contenti della visita, fecero nascere la città e rimontarono la loro barca per prendere la via del ritorno attraverso il mare. Non fosse stato per il mare…
Daniele Pilenga, da quattro anni docente, vive e lavora tra Caravaggio e Bergamo, provando a spiegare dipingere fotografare l’importanza delle immagini nella memoria e a come trasformarle in tracce di senso. Altro qui.