Non so se ci voglia più coraggio o curiosità, per diventare come Dervla Murphy. Irlandese affezionata alla sua terra – le cui montagne, specialmente nella contea di Wicklow, conosce a memoria – Dervla all’età di 31 anni, nel 1963, lascia Lismore e parte per l’India. In bicicletta.

Quel viaggio, costato poco più di 60 sterline, segna l’inizio di una vita votata, più che all’andare, al desiderio di scoprire e capire il mondo che la circonda.

Per questo non so se si tratta di coraggio: lei, Dervla, dice di no – e lo ripete in quasi tutte le interviste. Per viaggiare secondo lei non ci vuole coraggio. Ma allora cosa? Curiosa di scoprirlo e arrivata a metà della sua autobiografia Wheels within Wheels (1979), chiedo alla sua casa editrice di fissarmi un’intervista e, qualche giorno più tardi, mi ritrovo a comporre un numero irlandese, immaginando il cavo telefonico correre dal Lussemburgo fino al paesino di Lismore (dove Dervla vive ancora) per raggiungere casa sua, far squillare il telefono e costringerla a interrompere la sua routine mattutina – colazione essenziale e lunga passeggiata nei dintorni con i suoi cani – per parlare con me.

Dervla ha una voce profonda e ha appena finito di fare colazione. A dire il vero, è appena tornata dalla Palestina, dove ha trascorso un periodo per toccare con mano la questione palestinese. Un viaggio, questo, che Dervla ha raccontato nel suo ultimo libro A Month by the Sea: Encounters in Gaza (2013).

NBM: Sta già programmando un nuovo viaggio?

DM: No, non programmo mai un nuovo viaggio prima di aver finito di raccontare quello appena concluso. Al momento sto trascorrendo la maggior parte della mia giornata scrivendo.

NBM: Quale motivo la spinge e l’ha spinta, in passato, a viaggiare?

DM: I motivi sono sempre molto diversi. Nella prima parte della mia vita ho viaggiato per scoprire luoghi nuovi. Con l’arrivo del 21esimo secolo e con l’aumentare dei conflitti, mi sono interessata sempre di più all’aspetto sociale dei paesi che visitavo. Il cambiamento grosso c’è stato in concomitanza con l’incidente di 3 Mile Island, in seguito al quale ho preso parte a campagne contro il nucleare e ho deciso di rimandare la pubblicazione di un libro sul Perù per concentrarmi su questo argomento (pubblicando Race to the Finish?, 1981).

NBM: Perché tra le sue destinazioni non ci sono paesi occidentali?

DM: Direi che mi è più facile entrare in contatto con culture esterne alla civilizzazione occidentale. Nei paesi sviluppati non mi sento a mio agio.

NBM: A cosa è legato il concetto di ‘casa’ per lei? Ci si può sentire a casa anche in paesi diversi dal nostro paese di origine?

DM: Per me Irlanda è sinonimo di ‘familiare’. È quando conosci tutto del paesaggio che ti circonda che il paesaggio stesso ti plasma e diventa parte di te. Non mi sono mai sentita ‘a casa’ in luoghi che non fossero l’Irlanda, anche se in Pakistan mi è successo di arrivare in una regione che non avevo mai visitato prima e di sapere esattamente cosa avrei visto, ma non ho spiegazioni per questa cosa.

Poi, bisognerebbe discutere di cosa significa ‘sentirsi a casa’: quando viaggio mi sento sempre ‘a casa’ e raramente fatico ad adattarmi, ma socialmente, politicamente e da un punto di vista di rapporto con l’ambiente, il paese dove nasci e cresci è l’unico che riesci a leggere, interpretare e capire, per questo, forse, è ‘casa’ più di ogni altro.

NBM: Lei ha viaggiato in paesi molto diversi dall’Irlanda, in anni in cui l’inglese non era così diffuso e conosciuto, come comunicava e come comunica anche oggi?

DM: Io parlo solo l’inglese ed è un peccato, perché spesso mi è impossibile discutere emozioni e idee e ciò mi priva di una parte essenziale del viaggio. Ma per il resto me la sono sempre cavata benissimo gesticolando: sono sempre riuscita a farmi capire.

NBM: Eccetto sua figlia Rachel, con cui ha viaggiato finché non ha compiuto 18 anni, lei ha sempre viaggiator da sola. Come mai?

DM: Ho sempre preferito così. Ho viaggiato con Rachel fino al nostro viaggio a Cuba, a quel punto lei era diventata un’adulta e viaggiare insieme stava cambiando. Penso che viaggiare con un compagno di viaggio renda più difficile entrare in contatto con la gente del posto, perché spesso questi – vedendo coppie o gruppi di viaggiatori – arrivano alla conclusione che non abbiamo bisogno del loro aiuto, proprio perché facciamo affidamento su uno o più compagni di viaggio, e quindi si avvicinano più difficilmente, sentendosi meno ‘in dovere’ di aiutarci.

NBM: Pensa che ci siano differenza tra le modalità di viaggio degli uomini e delle donne?

DM: No, penso che non ci siano differenze legate al genere, penso che le differenze siano legate soprattutto al carattere di una persona.

NBM: Cosa pensa di libri come Mangia, prega, ama (Elizabeth Gilbert, 2006) e di chi viaggia per ritrovare se stesso?

DM: Non ho mai sentito parlare di questo libro, mi dispiace, ma penso che, per chi si sente confuso, viaggiare sia un’ottima risorsa. Anche imparare ad adattarsi durante il viaggio è d’aiuto.

NBM: Parlando di attrezzatura da viaggio: è vero che non sa cambiare una gomma della bici? Cosa pensa dei trolley e cosa si porta sempre in viaggio?

DM: È vero, non so cambiare una gomma, ma non è mai stato un problema nei miei viaggi, ho sempre chiesto aiuto quando ne avevo  bisogno. E sono sempre stata aiutata. Per quanto riguarda i trolley, non sopporto l’idea di viaggiare con quei cosi: ho sempre viaggiato con uno zaino ma ultimamente il medico mi ha proibito di portare pesi sulla schiena. Ma è molto più facile portare qualcosa in spalla piuttosto che trascinare una valigia ovunque.

Per quanto riguarda ciò che porto in viaggio, mi limito a vestiti, sacco a pelo e quaderni per scrivere. Non porto cellulare o altre tecnologie moderne: penso che internet e la possibilità di comunicare sempre con amici e familiari si traducano nel fatto che, così facendo, non ci allontaniamo mai da casa. Quando parto, io parto per stare da sola. Le giovani generazioni, dotate di mille gadget, non lasciano mai veramente casa perché sono sempre connesse e, di conseguenza, ‘dipendenti’ da amici e famiglia.

NBM: Pensa che viaggiare sia diverso ora, rispetto a quando ha iniziato lei?

DM: Ora è più difficile trovare luoghi ‘remoti’ e, paradossalmente, in alcune parti del mondo viaggiare da soli è diventato pericoloso, quindi bisogna unirsi a gruppi e spedizioni. È un peccato, per le nuove generazioni, che non avranno mai la possibilità di sperimentare luoghi remoti.

NBM: Come si prepara a un nuovo viaggio?

DM: Di solito, mi documento sulla storia del paese in cui viaggerò e, spesso, quando torno dal viaggio riprendo alcune letture fatte prima della partenza.

NBM: Se dovesse dare un “consiglio di viaggio” alle sue nipoti, quale sarebbe?

DM: Direi loro di fuggire, in ogni senso possibile, dalla società consumistica in cui siamo immersi, di viaggiare con il minimo essenziale, di imparare a parlare altre lingue, di affrontare gli altri con semplicità e discrezione e, soprattutto, di avere fiducia nelle persone.

A questo punto, prima di ritornare alla sua Irlanda, Dervla – sorprendentemente – mi chiede di me: dove vivo, cosa sto facendo. Finiamo a parlare del Lussemburgo, di come io ci sia finita per caso e di come anche lei, anni fa, l’abbia attraversato ricordandone solo i contadini e campi (ormai rimpiazzati da banche e banchieri). Si augura che, un giorno, potremo incontrarci di persona. Me lo auguro anche io. In fondo, uno degli aspetti più belli del viaggiare è il confronto con le persone che incontriamo durante il percorso.

E vale lo stesso anche in questo insolito sabato mattina che mi ha fatta viaggiare, lungo un cavo telefonico, fino a Lismore, Irlanda.

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Purtroppo, l’unico libro di Dervla Murphy pubblicato in italiano è In Etiopia con un mulo, edito da EDT.