A questo tipo di contrattempi ero ormai abituato. La stagione invernale nel nord dell’Afghanistan non lasciava molte opportunità per il volo e la posizione particolare di Fayzabad rendeva il cielo, da dicembre a marzo inoltrato, coperto da una spessa coltre di nubi. Per i piccoli apparecchi che volavano senza assistenza da terra era chiedere troppo, quindi spesso i voli erano cancellati e ci si arrangiava di conseguenza. Se la partenza non era urgente si aspettava, magari una settimana o anche due (il calendario in effetti prevedeva solo due voli a settimana); altrimenti si cercava il modo di partire via terra o scendere a Kunduz, dove l’aeroporto era in posizione più favorevole, e cercare un altro volo.
Ma quando quel mercoledì Amir Shah ci informò della cancellazione del volo sia io che Jaweed sapevamo cosa ci stava aspettando: un viaggio di 12 ore almeno per tornare a Kabul. L’inverno in questo caso ci veniva quasi incontro, rendendo i viaggi via terra più interessanti per le migliori condizioni di sicurezza. L’insurrezione armata, talebana e non, stava guadagnando terreno al nord, e con l’arrivare della stagione primaverile gli attacchi si ripetevano nelle direttrici principali intorno a Kunduz, anche lungo la strada che portava a sud, verso Kabul, essenziale per i rifornimenti delle truppe ISAF (1). Per contro, durante la stagione invernale, la situazione era molto calma. L’unica incognita rimaneva il rigido e imprevedibile inverno afghano. La sera del martedì aveva nevicato abbondantemente e il terribile tunnel Salang era stato chiuso in entrambi i sensi. Ora il tunnel sembrava riaperto ma sicuramente la coda da smaltire sarebbe stata lunga. L’aspettativa di passare una notte sui versanti del tunnel esposti all’inverno in una scatola metallica non era allettante e l’unica soluzione era partire il più presto possibile, ed essere per il sorgere del sole a Kunduz per continuare svelti verso sud.
Fissato il piano, mentre Amir si accorda per una macchina in affitto, io e Jaweed facciamo qualche acquisto per il viaggio: acqua in bottiglia, mandarini, biscotti e ci diamo appuntamento per l’indomani mattina. Sono da poco passate le 22 e come norma l’elettricità in città era stata tolta. Nel buio della città vecchia di Fayzabad tutto è immobile, niente a disturbare la magnifica stellata accarezzare i profili innevati delle montagne ergersi verso il cielo. Alla fine del progetto sarebbe stata molto probabilmente l’ultima notte passata a Fayzabad e dopo tutti i problemi dovuti all’inverno, quella vista era un piacevole arrivederci.
L’indomani mattina, il cielo è perfettamente sereno, ironia della sorte le migliori condizioni per volare, e il freddo secco si fa sentire mentre sul balcone mi fumo un’ultima sigaretta rimanendo estasiato dalla luce riflessa dalle montagne innevate. Quando partiamo, tutto è ancora immobile. Amir Shah ci aspetta per salutarci con la macchina a nolo davanti all’ufficio. E’ avvolto nel suo chapan, un mantello tradizionale tipico di queste regioni, e ci ha preparato due thermos di tè caldo per il viaggio. Ci salutiamo rapidamente, sapendo di doverci vedere a Kabul la settimana successiva. Partiamo poco dopo, a bordo di un vecchio modello di Prado nero con ruote larghe e robuste, che avevo già usato in un’altra occasione in autunno. L’autista è un ragazzo giovane come tanti altri dai lineamenti uzbeki e i capelli sparati, vestito in un kameez (2) con gilerino. Jaweed ha il suo pakool (3) e si è preso il posto davanti mentre io mi allungo sul sedile posteriore, i nostri pochi bagagli nel retro. Con qualche sussulto di motore freddo partiamo e rapidamente attraversiamo il quartiere di Shar-e-Nau, deserto. Una volta sulla via principale, uscendo dalla città, non troviamo nemmeno un soldato sveglio al check-point. La strada prosegue tranquilla con il luccichio del gelo ben visibile e senza nebbia mentre ogni tanto passiamo qualche villaggio. La neve è abbondante ai lati della strada ma la strada rimane ben percorribile. Accanto a noi scorre il torrente Kokcha, che ci accompagna attraverso le valli ai piedi dell’Hindus Kush. In auto sia io che Jaweed dormicchiamo, mentre l’autista prosegue spedito e ci lasciamo il Badakhshan alle spalle. Raggiungiamo Taloqan e si vedono i primi camini fumare leggermente, mentre all’orizzonte si intravede il cielo schiarirsi. Le montagne sono ormai alle spalle e lasciano il posto a più dolci colline e a qualche albero in più. In alcuni tratti i gelsi, ai lati delle strade nel paesaggio invernale, mi ricordano la campagna emiliana, in una vecchia gita di scuola. La strada inizia a popolarsi di Corolla dagli scarichi freddi fumanti e si vedono anche i primi pick-up verdi dell’esercito in pattuglia. Continuiamo ed entriamo nella provincia di Kunduz, in una dolce pianura, mentre il sole inizia a fare capolino dall’orizzonte scoprendo il paesaggio. Della neve vi è solo qualche traccia, in un’atmosfera che è già primaverile: mentre sugli alberi ai lati della strada sbocciano i primi fiori nei campi, intorno germogli di un verde fresco spezzano la morsa del gelo per annunciare la nuova stagione. Jaweed, che fa parte di un consorzio di Ong con cui abbiamo collaborato, mi racconta di quando era un mujahedin (4) e combatteva con l’Alleanza del Nord. Lui conosce bene queste montagne avendole attraversate a piedi svariate volte per portare munizioni al fronte, verso Kunduz, e si ricorda ancora bene i rigori dell’inverno. Quando vediamo in lontananza la città capoluogo, l’autista ci consiglia una deviazione per evitare il centro e gli diamo fiducia. Tagliamo via il caotico centro prendendo una strada secondaria e dopo una mezz’oretta ci ritroviamo nuovamente sulla principale per Kabul in direzione Sud. Sono quasi le 9 e viaggiamo da più di 3 ore, mentre ci accingiamo ad attraversare il tratto più pericoloso, sulla carta, del viaggio. I chilometri che collegano Kunduz a Baghlan sono considerati terra di nessuno, pressochè deserti, e incastonati in una doppia direttrice nord-sud per il traffico di veicoli, ed est-ovest per i talebani che attraversano questa steppa per controllare il loro fronte al centro-nord e dove gli attacchi, in estate, sono quotidiani. Nelle aree al di fuori delle città principali, le reti di telefonia mobile sono davvero poco sviluppate. In silenzio e con un po’ di tensione prendiamo verso sud attraversando i saliscendi della piana tagliata dal fiume Kunduz: in un cielo sereno limpidissimo, ha l’aria un po’ spettrale da far-west.
In questo tratto i villaggi sono pochi e tutti centri di collegamento tra le pianure e la strada principale, con poco da offrire se non carburante, sigarette e qualche frutto di stagione. La visibilità è ottima, il che ci fa ben sperare, e il traffico che viene da sud pure, segno che probabilmente il tunnel è aperto e il flusso comincia a essere regolare. Continuiamo in religioso silenzio sulla strada che in questo tratto è in condizioni peggiori ma comunque scorrevole e, tra i tintinnii metallici del Prado, avanziamo regolari e raggiungiamo la cittadina industriale di Pol-e-Khomri quando non sono neanche le undici. Decidiamo di prenderci una pausa in occasione del pieno, tutto va nel migliore dei modi e ci concediamo un tè, un po’ di mandarini e qualche sigaretta. Jaweed mi racconta di quanto fosse ben sviluppata la città di Pol-e-Khomri in passato, capoluogo della provincia di Baghlan. Qualche fabbrica, energia elettrica, parecchi campi intorno e sull’asse principale tra il nord e Kabul ne facevano una città rilevante, tant’è che Dostum (5) la considerava chiave per il suo controllo del nord e soprattutto del tunnel Salang. Ora si vedono i segni dei grandi progetti giunti dopo il 2001, con una sfilza di pannelli con lunghe sigle, loghi e nomi burocratici e vuoti. I talebani stanno pian piano scendendo per circondare le province a Est e questa rischia di essere la prossima a cadere. Per il momento, noi ne godiamo il ristoro e riprendiamo la marcia, siamo a metà strada e piuttosto rassicurati. Contiamo oramai i chilometri per giungere al passo Salang, mentre la strada taglia le montagne e superiamo il centro di Doshi, l’ultimo grande distretto prima che la strada inizi a salire. La strada in questo tratto richiederebbe un rifacimento e ci fa sobbalzare non poco fino a che non sentiamo un tonfo metallico provenire da sotto il veicolo e perdiamo velocità, mentre l’autista frena e accostiamo. Dopo aver infilato la testa sotto al mezzo, l’autista se ne viene fuori con un pezzo dell’albero di trasmissione tranciato, un responso inequivocabile sulle nostre possibilità di continuare. Mentre mettiamo a freno le insistenze del ragazzo sulla sua capacità di riparare il veicolo a mani nude, io e Jaweed stiamo già pensando a come fare per continuare. Ci accendiamo una sigaretta per smaltire la tensione e, dopo aver verificato l’assenza di campo per il cellulare, conveniamo sul fatto che l’unico modo per arrivare a Kabul rimane l’autostop, almeno fin oltre il Salang dove sarebbe possibile magari trovare un taxi.
(continua)
Andrea Trevisan Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire. E così mentre i miei coetanei si dimenavano tra le nebbie del varesotto io lasciavo un CDI per iniziare una carriera nell’umanitario partendo dal basso e sognando di farne una professione. E mentre, lavorando, pensavo di trasmetterla l’umanità mi ha trovato lei, nelle persone e le azioni di tutti i giorni. Lavoro su programmi di educazione e reinserimento sociale. Per quello che per me è sicuramente il lavoro più bello del mondo. [email protected]
NOTE.
(1) ISAF – International Security Assistance Force – Forze internazionale della NATO di supporto al governo Afghano.
(2) Kameez – camicia lunga fino all’anca o anche al ginocchio, tipica dei vestiti tradizionali dell’asia centrale.
(3) Pakool – copricapo di lana tipico dell’Afghanistan.
(4) Mujahedin – combattente del jihād” oppure, più semplicemente, patriota. Soldati che hanno combattuto contro l’invazione sovietica, prima, e nella guerra civile poi.
(5) Abdul Rashid Dostum – Leader Uzbeko-Afghano, generale dell’Esercito Afghano durante il conflitto con i sovietici, capo del partito Jumbish.
I nomi che trovate in questo articolo sono nomi di fantasia per proteggere l’incolumità dei diretti interessati. (N.d.A.)