Venerdì pomeriggio e piove. Non fa freddo ma questa pioggerellina mi costringe a portarmi appresso il fastidioso ombrello. Cammino per un quartiere che una volta era uno dei miei quartieri, ci andavo a scuola, tutti i giorni per 5 anni. Poi è stato il quartiere di alcuni amici. Ora sono più di vent’anni che non lo vivo, ci passo a malapena di tanto in tanto, per quasi dieci anni non ci ho proprio più messo piede. Cammino senza una meta, sorprendendomi ogni volta che incrocio una vetrina insolita o curiosa. Quella libreria all’angolo, per esempio me la devo segnare. L’Atalante. Alzo gli occhi e riconosco il nome di una via, abitavano qui alcuni amici ai tempi dell’università. Ora uno lavora in Qatar e l’altro in Kuwait, con Alexandra. Sto cercando di ricordare il civico, di riconoscere il portone quando mi sento chiedere una cosa. In inglese. Lì per lì non capisco, mi giro e incrocio gli occhi azzurri di Ian. Ha un accento del nord, di un area che non so definire ma che assomiglia tanto a quello che si sente negli intermezzi parlati dei concerti degli Oasis e dei Mogwai. Mi guarda dritto negli occhi nuovamente e mi ripete la stessa cosa:” hai della moneta? sono un senzatetto.” Infilo una mano in tasca, e tiro fuori i pochi spiccioli che ho. Mi chiede se sono italiano, se sono di Milano. Gli dico di sì, gli chiedo di dov’è e dice di essere inglese. Piove, poco ma piove, e se ne sta con un parka blu consunto, umido e strappato. Parliamo qualche minuto, gli chiedo se non preferirebbe tornare in Inghilterra. Gli hanno rubato il passaporto, immagino in una di queste notti dormendo all’addiaccio, in qualche androne, su qualche panchina. Non vuole tornare in Inghilterra, la sua faccia è una smorfia di dissenso. “Sono molto più felice qui – dice – però mi serve il passaporto.Voglio andare a est per vedere come va”. Mi ringrazia per i due euro e si allontana. “Buona fortuna” dice. A me. Buona fortuna, Ian. Prendiamo il marciapiede in direzione opposta e penso al fatto che non avesse davvero nulla con sè e al fatto che ha usato la parola “felice”. In questi anni, per riempire le pagine di NBM, di storie ne abbiamo sentite tante, ne abbiamo lette tante. Noi stessi abbiamo viaggiato un po’, abbiamo cercato un posto dove essere – magari solo per due settimane – un po’ più felici. Mentre torno sui miei passi, mentre la pioggia smette di cadere, mentre quello che mi aspetta è un pomeriggio di tabelle excel e email che possono fare tutto, tranne che dare la felicità, mentre penso a tutto questo continuano a tornarmi in mente quegli occhi. Perchè mi hanno colpito così tanto? Perchè ho sentito il bisogno immediato di dire: “sai, ho incontrato un tipo inglese che voleva andare a Est”? Non c’era nulla di romantico nella sua voglia di viaggiare, nulla di comodo, nulla di nemmeno lontanamente consolatorio. Eppure. Eppure mi ha lasciato dentro qualcosa, tanto che ogni mattina, adesso, appena riemergo dal viscere del passante ferroviario, getto uno sguardo per vedere se per caso Ian sia ancora lì, da qualche parte. Non l’ho più rivisto, ovviamente. Spero, però, che la sua ambasciata gli abbia rilasciato un altro passaporto, spero che sia riuscito a trovare il modo di prendere la strada, una qualsiasi, verso oriente.
Per vedere come va.
foto in homepage e in copertina scattata da KittyKaht nell’articolo da Paul Lowry
pubblicate su licenza CC