Francesco è in viaggio da un anno ormai. L’idea iniziale era di essere in Australia in questo periodo, ma alla fine è rimasto in Cina, un po’ per scelta e un po’ per necessità. Dopo Bosnia, Turchia, Kurdistan, Iran e Kyrgyzstan è il momento di affrontare il deserto del Taklamakan.
Saluto i camionisti kazaki con cui ho passato l’ultima sera in Asia Centrale – una serata tipicamente centrasiatica, rumorosa e a base di carne e vodka – e pedalo verso il confine. La guardia mi informa che sono il primo della giornata e dopo qualche chilometro di terra di nessuno finalmente appare, un puntino rosso in mezzo ad una serie di palazzoni, la bandiera cinese che aspetto di vedere da giorni. Tutto mi sembra così surreale; la frontiera assume il ruolo di buco nero dopo il quale tutto cambia e mi catapulta in un mondo nuovo: vengo assalito da gente che vuole cambiare soldi, si aggrappano letteralmente alla bici come bambini e davanti a me si apre uno stradone, circondato da imponenti palazzi e puntellato di ogni tipo di mezzi di trasporto, da tricicli motorizzati a motorini elettrici, che si infilano letteralmente ovunque, stradone che sostituisce la tranquilla strada in mezzo alla steppa che mi aveva accompagnato lungo i miei 4 giorni in Kazakistan. Tutto d’un colpo le mie vaghe conoscenze su cibo, lingua, cultura, acquisite negli ultimi mesi diventano inutili e mi rassegno, per l’ennesima volta, al passaggio da un mondo che non capivo ed una lingua che non parlavo, ma in cui comunque riuscivo ad orientarmi, ad un posto completamente nuovo, in cui non capisco assolutamente nulla e devo ripartire da zero.
Di nuovo. Il mio primo pasto cinese è un delizioso misto di funghi e carne, accompagnati da un pane strane e un nuovo tipo di te’. E le bacchette. Mi ci vorrà una settimana buona ad abituarmi a mangiare con le bacchette e i primi pasti, lagman o noodle cucinati in diversi modi, sembrano non finire mai, tra verdure che finiscono ovunque e sguardi divertiti della gente, che scatta continuamente foto allo straniero arrivato in bici che non sa usare le bacchette. So che ci sarà, e so che sarà lungo – lo sto aspettando da tempo -, ma non so esattamente quando inizi il famoso deserto del Taklamakan. Inaspettatamente appaiono delle montagne, due passi sopra i 3000 m, con una salita bellissima, tornanti in mezzo al verde lungo un fiume blu, una novità rispetto al colorito marrone scuro dei fiumi cinesi. Lungo la salita appaiono di nuovo yurte, altre le stanno smontando per l’inverno e vengo più volte fermato da cinesi che vogliono farmi una foto e mi regalano del pane naan o della frutta. Un signore di Pechino dice, offrendomi un pezzo di anguria e sorridendo, che il Xinjiang, la regione dove sto viaggiando che occupa l’Ovest della Cina, è famosa per la sua frutta. Omette che è famosa anche, e soprattutto, per gli Uiguri, un popolo musulmano di etnia turca, che parla una lingua simile al turco, ma usa l’alfabeto arabo, un’ultima estensione di Asia Centrale prima della Cina vera e propria.
Omissione non da poco se si considera che Uiguri e cinesi Han non sono proprio in rapporti amichevoli, con il governo cinese che cerca, neanche troppo velatamente, di cancellare la loro storia e la loro cultura, usando la forza se necessario. Eleanor Moseman ha viaggiato a lungo in bici in Cina, facendo un bellissimo reportage fotografico sugli Uiguri
Passo molto più a Nord di Kasghar e, dopo un passo a 3000 m la arrivo ad un bivio: a Nord Urumqi – la capitale del Xinjiang e la città più lontana da qualsiasi mare – e la parte Nord della Via della Seta; a Sud una strada che sembra costeggiare il fiume Tarim e che attraversa il deserto del Taklamakan per oltre 400 chilometri, per poi raggiungere la parte Sud della Via della Seta. Mi dirigo verso Sud, appaiono le prime dune, ma il fiume rende il deserto meno arido, ogni tanto appaiono addirittura delle coltivazioni: sto attraversando il cosiddetto ‘Corridoio Verde’, una striscia di terra che, grazie alla presenza del fiume, interrompe per pochi chilometri il deserto. A parlarmi del Corridoio Verde sono alcuni lavoratori che vivono in una casa vicino ad un villaggio e il cui lavoro è quello di aumentare il flusso d’acqua del fiume, fortemente diminuito dopo la costruzione di una diga. Una richiesta per dell’acqua al tramonto si tramuta in fretta in un invito a cena e a rimanere per la notte.
Sono Uiguri e due di loro parlano un inglese accettabile, ma non si ricordano come dire diga, vanno a cercare il film Animal Kingdom sul computer e mi mostrano la scena finale, in cui gli animali abbattono una diga dicendo che è per questo che non c’è acqua nel fiume; per me resta un bellissimo esempio di come sia possibile superare le barriere linguistiche se lo si vuole realmente. Riparto dopo una tipica colazione uigura: te’, mischiato con latte e naan; pomodori, peperoni e cipolle. Verso sera il Corridoio Verde finisce, mi ritrovo in una stradina senza traffico, con il vento – una costante assoluta in tutto il Taklamakan – che ha portato la sabbia lungo la strada; attraverso una serie di dune bellissime, campeggiando in un posto avvolto da un silenzio quasi irreale. Per la prima volta da quando sono entrato in Cina non riesco più a trovare il naan, il pane tipico degli Uiguri, segno che il Xinjiang sta per finire. Raggiungo la parte Sud di quella che era la Via della Seta, 1500 km più a Est c’è Xining, la mia destinazione.
La strada è perfettamente asfaltata, il traffico, molto leggero, è prevalentemente composto da camion giganteschi che trasportano di tutto; le rare macchine che passano ogni tanto si fermano per farmi una foto o per regalarmi acqua e cibo. E sperimento finalmente il famoso vento del Taklamakan, persino peggiore di quanto immaginavo: avanzo con la faccia coperta, la sabbia sollevata dal vento riduce la visibilità, procedo lentissimo, mangiando sabbia e faticando a volte a tenere la bici in piedi. Per fortuna dopo due (lentissimi) giorni appaiono in lontananza delle montagne, mi illudo che il deserto stia per finire e dopo una lunghissima salita, con un leggero vento a favore, pianto la tenda ad oltre 3000 m di altitudine, felice al pensiero di essermi lasciato il deserto alle spalle. In realtà devo ancora affrontare, a mia insaputa, la parte più arida e desolata; nei successivi 800 km attraverso 5 villaggi, composti da qualche casa e nulla più. Le giornate, come il paesaggio, si somigliano un po’ tutte tra loro: sveglia prima dell’alba, colazione al buio per iniziare a pedalare con il sole che sorge, me lo trovo dritto in faccia e mi scalda durante le prime ora della giornata, un pranzo veloce a base di instant noodle, e tornare a pedalare sino al tramonto, quando inizia a fare di nuovo fresco – sono in un altipiano a 3000 m nel Qinghai – e pianto la tenda nella sabbia, cercando di trovare un posto riparato dal vento.
Nel deserto, e questa è una caratteristica che li rende particolarmente attraenti, ogni cosa che accade, anche la più piccola o insignificante, assume un significato speciale: qualcuno che si ferma per parlare o per darti acqua e cibo, una banale conversazione in inglese dopo due giorni che non parli con nessuno o un villaggio ad ora di pranzo. Ad un certo punto appare addirittura un ciclista che va nell’altra direzione, un evento assolutamente normale in Asia Centrale, qualcosa di cui festeggiare in mezzo a questo nulla, e iniziamo a salutarci da lontano, ma purtroppo è cinese e non parla inglese. Per quanto possa sembrare un evento insignificante, la sensazione più bella in assoluto è stata data dal trovare, dopo 60 chilometri di assoluto nulla ed esattamente al tramonto, una casa abbandonata in cui passare la notte, specialmente perché pensavo ancora con orrore alla notte precedente – una notte insonne a causa di un vento feroce e la costante preoccupazione che la tenda si rompesse, sotto la pioggia e trovando la tenda mezza allagata al mattino. Preparando la cena dentro questa casa, anche questa sempre uguale- riso o lenticchie con uno spicchio d’aglio e qualche mela secca; biscotti comprati in stazioni di servizi o ricevuti in regalo per dessert- ed ascoltando il vento e la pioggia fuori provo una sensazione bellissima.
L’aver trovato questa casa, proprio in questo momento, mi sembra essere un autentico regalo del deserto ed è sicuramente uno dei momenti più belli di questi giorni. E poi, dopo un’altra salita, il deserto finisce, per davvero questa volta. In fondo alla discesa appaiono campi coltivati, canali di irrigazione ed alberi; capisco che non è più necessario portarsi dietro 10 litri d’acqua. La transizione non è netta, per un paio di giorni continua a non esserci molto, ma i villaggi aumentano, erba e piccoli cespugli iniziano lentamente a sostituire la sabbia. Vicino al lago Qinghai, il più grande lago cinese a 3200 m di altitudine, famoso tra i ciclisti in Cina per via del Giro del Lago Qinghai, compaiono i primi yak, insieme ai primi villaggi e pastori tibetani. Ma per ora, dopo un mese passato tra bici e tenda, mi interessa solo arrivare a Xining, una città di due milioni di abitanti composta per un terzo da cinesi, un terzo da tibetani e un terzo da hui, una etnia cinese a prevalenza musulmana, città in cui intendo riposarmi e mangiare per qualche giorno, due cose che mi riusciranno benissimo anche grazie all’incontro con due ciclisti francesi che, anche loro, hanno appena finito di attraversare il deserto.
Francesco Alaimo, 25 anni, originario di Bologna. Ho vissuto un po’ in Australia, un po’ a Trieste, un po’ a Monaco e un po’ nel grigio Leiceistershire inglese. Sono appassionato soprattutto di bici e letteratura americana. Ho trascorso l’ultimo anno a preparare panini da Burger King e a laurearmi in fisica teorica. Poi, a Novembre, ho preso la mia bici e ho iniziato a pedalare verso Est.