Quasi tutto il tragitto della seconda tappa era all’aperto, lungo prati che fungevano da pascoli, chiusi da filo spinato e piccoli cancelli, utilizzati sia per evitare che le vacche scappassero, sia che i giovani delle valli aprissero il gas delle loro moto da cross all’interno dei confini del Parco.

La fatica si faceva sentire sulle gambe, ma il percorso non prevedeva salite impegnative, solo un acclimatamento in costa, un camminare senza né scendere né salire, fino ad arrivare a Ca’ del Romano. Lì ci avrebbe atteso un bar, l’unico nel giro di una decina di chilometri, dove pranzare, prima di dirigerci verso le rovine di un vecchio rifugio, un centinaio di metri sotto la croce della vetta, alla cui sommità si potevano osservare i laghi del Brugneto rincorrersi in successione uno dopo l’altro come macchine in coda.

In mezzo al bosco ci aveva colto di sorpresa un cartello. Fino a quel momento ci eravamo limitati a seguire, come Alice il bianconiglio, i segnavia bicolore dell’Alta Via dei Monti Liguri e ora, invece, un rettangolo bianco, attaccato a un tronco, indicava che ci stavamo avvicinando alla civiltà. Non era nessun divieto di raccogliere fiori, fughi o castagne, né quello di una vecchia battuta di caccia al cinghiale. La freccia puntava a un sentiero che si perdeva nel fitto degli alberi e le lettere, incolonnate una dopo l’altra, creavano la parola “FORMAGGI”.

Non ci era voluto molto a convincerci a fare una piccola deviazione. Era bastato camminare per duecento metri prima di sentire abbaiare un cane, un pastore maremmano imponente avremmo scoperto, e vedere i confini di una casa comparire davanti a noi. Il cane era legato, così eravamo avanzati senza paura, notando solo all’ultimo il pastore, in camicia blu a maniche corte, che sembrava attenderci sull’uscio.

“Buongiorno” aveva detto Alberto quando era a un tiro di voce, “abbiamo visto che avete formaggi.”

“Certo, entrate” aveva aperto la porta l’uomo, conducendoci all’interno della sua cascina. I muri erano freschi e la casa vecchia decine di anni. Senza riscaldamento, né impianto elettrico, era facile dedurre fosse usata solo nella belle stagione, per quattro o cinque mesi al massimo. In una stanza interna, poggiate su scaffali di legno scuro, riposavano formaggi di diversi diametri. Il profumo del caglio riempiva la casa. Senza dirlo, solo guardandoci negli occhi, avevamo scambiato qualche ghigno, domandandoci come facesse, quell’uomo, a dormire lì dentro.

Eravamo usciti con mezza forma di caprino, morbida come pongo, infilata nella parte alta dello zaino per evitare che il suo odore impregnasse i vestiti. La sera, sarebbe stata la ricompensa per la nostra fatica.

Avevamo raggiunto la locanda alle tre, i tavoli da pranzo ormai sparecchiati. Abbandonati gli zaini a terra, quattro Coca-Cole all’aperto erano state il nostro primo sollievo. Per i panini avevamo preferito l’ombra dell’interno e le pareti coperte, fino al metro di altezza, da listarelle di legno chiaro. Se eravamo entrati, non era per avere sollievo dal sole, ma per la presenza di un televisore. In montagne non troppo diverse si stava correndo l’Ottantasettesima edizione del Tour del France e ancora scattava, su quei tornanti, Marco Pantani.

Eravamo cresciuti con il mito di Bugno, regolare come un impiegato; con gli occhiali e il codino di Fignon, che ci sembrava una via di mezzo tra un ribelle e un aristocratico intellettuale, ma soprattutto con il naso da pugile e la pelle abbronzata del Diablo Chiappucci, che più di una volta era partito da solo, in fughe leggendarie, riuscendo ad indossare la maglia a pois che per noi, e solo per noi, valeva più della gialla: era il tatuaggio che indicava ciclista più coraggioso. Ora a scaldarci il cuore non poteva che essere il Pirata.

Avevamo guardato la fine della tappa, unici ragazzi insieme agli anziani e agli adulti del bar. Qualcuno ci chiedeva da dove fossimo arrivati, e dove avessimo intenzione di andare, ma per i più eravamo invisibili. Con bicchieri di vetro spessi, pieni di un beverone fatto di vino bianco ed acqua, commentavano le salite, e poco gli importava del resto. Solo un vecchio montanaro ci aveva chiesto dove fossimo diretti, notando i paletti della tenda che spuntavano da una tasca dello zaino.

“Arriviamo fino al mare, a Camogli” gli avevo spiegato io, “questa notte dormiamo sull’Antola” avevo continuato pentendomi subito. Non era il caso di lasciare in giro le nostre coordinate.

“Non campeggiate nell’avvallamento sotto la croce” ci aveva messo in guardia senza staccare gli occhi dal televisore, “se un fulmine colpisce la punta, scarica l’elettricità lì. Dormite ovunque, ma non lì, anche se vi può sembrare il posto più riparato.”

Il sole del tramonto era sceso a incendiare il bosco, mentre montavamo l’igloo rosso-verde della tenda. Questa volta sarebbe toccato a me e Luca dormire all’interno, mentre Stefano e Alberto avevano steso i loro sacchi a pelo nell’atrio di una cappella votiva, eretta poco lontano dai ruderi del rifugio. I suoi coppi di laterizio sarebbero stati il loro tetto.

Per cena avevamo mangiato una minestra di ceci liofilizzata, pane e formaggio e qualche cubetto di cioccolato fondente. Alimentare il fuoco che avevamo acceso era stato il gioco che ci aveva tenuti svegli fino a quando non era arrivato il buio completo della notte.

Alla luce dei rami che si stavano sacrificando davanti ai nostri occhi, era stato facile parlare, lì dove nessuno ci poteva sentire, delle attese e delle speranze che portavamo dentro. Il pensiero di quello che sarebbe accaduto il prossimo settembre, il primo, da quando avevamo memoria, in cui non sapevamo cosa ci avrebbe aspettato. Per quanto chi l’avesse già cominciata ci raccontasse spesso dell’università, per noi era ancora velata da un’aurea di mistero. Saremmo andati in città diverse, e che città: uno a Genova, un altro a Torino e due a Milano. Lì avremmo trovato ad accoglierci ragazzi da tutta Italia: riccioluti calabresi, marchigiani dall’accento inconfondibile, timidi valdostani e veneti insopportabili. Ma anche siciliani dalla carnagione oliva, romani caciaroni e bolognesi alternativi. Loro, e poi ragazze di cui non potevano immaginare l’esistenza: la bolla del nostro paese di provincia era finalmente scoppiata. Il mondo ci si sarebbe aperto incontro.

Avevamo parlato di questo, alla luce del fuoco, e anche di chi, tra i compagni dei liceo, ci sarebbe mancato di più. Seduti in cerchio, durante quella specie di rito sciamanico, era stato leggero portare alla memoria gli episodi più divertenti degli anni che ci avevano visto diventare, all’interno della stessa aula, da ragazzini sprovveduti a uomini in età militare. La volta in cui avevamo rincorso un compagno, per i corridoi, brandendo come arma lo spazzolone per pulire i cessi; le interrogazioni di autori latini con le traduzioni scritte sopra il testo; e poi le gite scolastiche, le cene di classe, il semestre in cui era arrivato un supplente di inglese e per due lezioni, durante l’appello, ci eravamo scambiati i nomi: io avevo fatto finta di essere Alberto, lui Stefano e Stefano Luca. E così, a ogni minaccia di nota, rispondevamo strafottenti “la metta pure, la metta pure”, sapendo di nasconderci dietro il cognome dell’altro.

Salito il vento avevamo indossato i nostri maglioni. Prima di infilarci nei sacchi a pelo avevamo raggiunto nuovamente la cima del monte, questa volta col buio, per godere il panorama da lassù. Ora i laghi si confondevano con i boschi, scuri allo stesso modo, ma le luci dei centri abitati, giù a valle, creavano costellazioni per noi facili da indovinare. Si riconoscevano, dalla grandezza dei centri e dalla luminosità che irradiavano, Cabella, la minuscola frazione di Carrega e poi ancora Vignole, Arquata e più distante Novi.

Scendendo verso la tenda, nessuno aveva parlato. Dentro l’igloo rosso-verde, prima di addormentarsi, come fosse una sorta di confessione, Luca aveva detto, rivolto al buio,: “appena trovo una ragazza a cui piace camminare in montagna giuro che la sposo.”

(2, continua)

 

Paolo Bottiroli

la foto in copertina è di davide orlandi su licenza CC