Quella volta che sono stato a New York.
Era novembre e il tempo era stranamente caldo e soleggiato. Solo a volte raffiche di vento si infilavano tra gli edifici portando aria fredda che ti pungeva la faccia. L’aereo aveva fatto una curva larghissima e per la prima volta avevo visto in tutta la sua ampiezza il rettangolo verde di Central Park. Dopo aver ripreso l’assetto normale, abbiamo cominciato a scendere verso il La Guardia, nel cuore del Queens. Di lì a poco sarei sceso, avrei preso un autobus che avrebbe dovuto portarmi verso il Greenwich Village, passando per Harlem. In pochi minuti avrei toccato uno dopo l’altro tutto l’immaginario che si era formato nella mia testa in anni di letture e film e ascolti. In particolare questi ultimi, negli ultimi tempi, mi avevano disegnato una mappa di New York, che non ero sicuro fosse veritiera, ma che sembrava essere quella più presente. Avevo con me un pesantissimo lettore mp3 – uno dei primi, con pochi Mb e una batteria gigante – e da poco avevo caricato il secondo disco degli Interpol – Antics – dopo che il primo – Turn on the bright lights – mi aveva completamente stregato. Durante quei 4 giorni a New York avrei camminato tanto e sempre da solo. L’unica costante era la musica. Non ricordo tutti i brani che ho potuto ascoltare, ma per uno strano scherzo del cervello, ho bene in mente l’associazione tra quei dischi e i miei giri newyorkesi. Da allora non ci sono più stato, ma ogni volta che gli Interpol hanno fatto un nuovo disco, io mi sono sentito a New York. In strade nuove, in posti nuovi, che non ho mai visto, ma che sono sicuro in qualche modo ci siano.
hands away il profilo di manhattan e proprio come nei film. sono passati pochi anni dal 9/11 e gli occhi automaticamente vanno all’estremo sud, senza incrociare nulla. ma si vede l’empire state building e il grattacielo più bello del mondo, il chrysler building.
untitled il tipo dietro il vetro è un nero enorme che non capisce la mia richiesta per un biglietto dell’autobus, devo andare in centro, penso, non può essere così difficile. sorrido, ripeto. è la mia prima volta qui, man. sorride, mi allunga un biglietto e mi indica la direzione. god bless you, man.
obstacle #1 entro in questo edificio che sembra super controllato ma in realtà tutto sembra aperto. c’è una specie di postazione, e una specie di videocitofono, ma nessun nome da premere, non c’è nulla. mi fermo, aspetto. la gente arriva, guarda la telecamera e pronuncia il proprio nome. non capisco. riguardo. non ci riesco. cosa dovrei fare. forse la mia faccia dice più di quanto non pensi. un tipo sorridente viene verso di me. prima volta? sì, prima volta. devi solo guardare dritto e dire il tuo nome, è per il riconoscimento in caso succedesse qualcosa. ma se dico un nome falso? lascio perdere. mi fermo, scandisco il nome ed entro.
roland cammino lungo il fiume e guardo in su. lo faccio continuamente. sono sotto questo edificio in costruzione e guardo su. so chi l’ha progettato e sono curioso. qualcuno mi vede dall’alto. mi interroga, chiede. cosa ci faccio lì? voglio salire? sì, voglio salire. c’è una luce strepitosa e io sono super eccitato. potrei gridare ma non lo faccio.
leif erikson devo prendere la metropolitana verso brooklyn, cerco di orientarmi. cerco di capire, ma ci sono troppe cose intorno che mi distraggono. è un film, è continuamente un film. ogni persona che sale o scende da un vagone sembra un personaggio di woody allen, di spike lee o di martin scorsese. mi aspetto di vedere robert redford da un minuto all’altro con la faccia stanca e preoccupata che cerca con gli occhi qualcuno che possa avere intenzione di sparargli.
take you on a cruise il primo giorno a brooklyn e quella parlata italiana così strana. e le famiglie che girano nei negozi e mischiano tutto. è un film anche questo? no, questa è la realtà di tutti i giorni. è novembre, tra non molto sarà natale ed è tempo di regali. una coppia di una certa età prende un caffè seduti ad un tavolino. sono gli unici non italiani, qui dentro. forse greci.
not even jail andiamo a cena in un posto vicino a Nolita, nord di little italy. perchè qui siamo tanti, siamo davvero tanti. le strade sembrano più strette, le case più basse. sì, le case basse a new york, incredibile. mangiamo e tutti gli italoamericani mi chiedono di parlare in italiano. come si dice questo, come si dice quello. e parlano loro e io rido, che quella cosa non si dice così. non si dice più così.
a time to be so small sotto l’empire state building. sotto il palazzo ONU. di fronte alla rete che delimita il WTC. davanti a Wright e la sua spirale.
slow hands è buio e la luce arriva quasi tutta dalle vetrine dei negozi già chiusi. sto cercando la Grand Central Station. gente che parte, gente che arriva, io guardo. una donna si trucca ai piedi delle scale, in una strana posizione. elegante. penso sia iraniana, ma non so perchè.
evil l’aereo quasi vuoto, i sedili intorno a me non sono occupati. scatto una foto.
ora, è piuttosto semplice, provate a partire anche voi.
la foto in copertina è di Flavia, pubblicata su licenza CC.