Qualche mese fa ci eravamo già occupati della fotografia di Ettore Moni con il suo lavoro sulle “Case Sospese”. Oggi vogliamo parlarvi di un suo progetto che lo ha impegnato per molto tempo e che lo ha portato alla scoperta di una valle sulla Alpi Apuane, alle spalle della città di Massa. “An Empty Valley” racconta una storia fatta di abbandoni e di ritorni, di tradizioni, di attaccamento a un territorio nonostante le mille difficoltà.

“Non saprei stabilire di preciso quando un viaggio ha realmente inizio. Se nel momento stesso in cui è concepito oppure in quello in cui esiste al di fuori di noi.
Perché, a volte, le distanze chilometriche e le imprese al limite dell’umano non c’entrano nulla. A volte basta solo andar via, altre ritornare, altre ancora rimanere. E poi ci sono quelle volte in cui di partire non si ha proprio nessuna voglia. Ed è da qui, invece, che il mio viaggio ha avuto inizio.

Era la classica mattina partita col piede sbagliato, anzi con l’alluce picchiato contro il comodino e il barattolo del caffè vuoto. Una di quelle mattine che fanno tanto “Scemo più Scemo”, altro che “I’ve got the power” degli Snap in “Una settimana da Dio”. Una di quelle mattine in cui, mentre percorri gli ottocento metri che ti separano dall’espresso che non ti sei potuta preparare a casa, ti senti un po’ Eric Liddell e Harold Abrahms in “Momenti di Gloria”. Ed è subito “Chariots of fire”.

Così ho stupito persino me stessa quando, incontrando Ettore al bar, mi ha proposto di accompagnarlo in mattinata a Forno ed io ho risposto di sì. Intendiamoci, Ettore non passa le sue giornate ad adescare ragazze facendo leva sulla loro dipendenza da metilxantine: ci conoscevamo già e, anche se non ero mai stata a Forno, mi era capitato di scriverne qualche mese prima. E per la cronaca sì, il caffè me l’ha offerto lui.
Sino a quel momento per me Forno era solo una realtà parziale, fatta di istantanee e ritratti, di immagini che scorrono veloci fuori dal finestrino in autostrada, una realtà filtrata da parole e da occhi che non erano i miei. Un po’ come quando da piccina ti raccontano quelle storie strampalate, inventate su due piedi, a cui però finisci col credere davvero, poi.

Forno è una delle frazioni del comune di Massa, nell’Alta Valle del Frigido. Nonostante in passato si siano avvicendate numerose attività, ha vissuto una rivoluzione industriale incapace di apportare effettiva ricchezza al paese. Persino l’attività estrattiva, iniziata già in epoca romana, ha subito a più riprese battute d’arresto sino alla definitiva consacrazione ottocentesca che ha segnato il passaggio da una produzione più limitata a una più massiva, con tutta una serie di conseguenze rivelatesi, talvolta, estremamente poco sostenibili anche per gli abitanti della valle. Ad oggi, comunque, i ritmi di estrazione sono ben lontani dal concetto comune di sfruttamento intensivo. E proprio questa pesante eredità storico-sociale ha finito col condizionare non solo le sorti di questa vallata ma anche la morfologia stessa del suo paesaggio che con la sua inquieta asperità sa zittire chi lo guarda.

Avete presente le lunghe highway americane? Il vento tra i capelli e una Corvette che sfreccia sull’Historic Route 66? Lasciate perdere.
Qui, infatti, l’avventura si inerpica su piccole stradine con curve a gomito e scorci mozzafiato. Qui si ritrova se stessi, a patto di perdersi un po’. Siate curiosi di guardarvi attorno senza farvi sfuggire niente, perchè stavolta il navigatore non ha sbagliato strada come quando eravate diretti al matrimonio della migliore amica della sorella di una vostra collega ma siete finiti in mezzo al cantiere di una palazzina in costruzione e vi siete sparati un selfie con la betoniera.
Qui è normale domandarsi almeno per quattro o cinque volte di seguito, “Dove caspita sto finendo?”.
Ed è altrettanto normale non resistere alla tentazione di farsi fotografare sotto al cartello con su scritto “Forno” all’imbocco del paese, a testimoniare che alla fine ce l’avete fatta. Anche se poi dovrete tenere questa piccola ed intima gioia per voi, almeno sino al viaggio di ritorno: nessun upload, tag o whatsappino perché il cellulare non prende. E a dispetto di un paesaggio che a tratti ricorda proprio quello lunare, nessun alieno vi verrà incontro chiedendovi di chiamare a casa col dito puntato.

Boccone troppo amaro da buttare giù? Allora passate a farvi un goccetto al Bar Alpi, sulla sinistra, quasi all’inizio del paese. E lì capirete che si può ancora condividere, anche senza internet ma mai senza un bicchiere davanti. E se saprete ascoltare, magari alle vostre orecchie arriveranno anche racconti di cave e di uomini, di salvataggi fatti quando da giovani si faceva parte del soccorso alpino e di quanto si sia fortunati ad andare in pensione con ancora tutte le dita attaccate alla mano, di quanto a volte ci si senta privilegiati perché la montagna ti ha risparmiato e poco importa quale altro pezzo di te abbia deciso di tenersi.
E se spingendovi ancora un pochino più avanti, oltre quella grande struttura che ricorda una grande casa coloniale ma che in realtà è ciò che resta della vecchia Filanda, sarete abbastanza fortunati da incrociare Marco al lavoro su una delle sue sculture, accostate bene con la macchina, sennò ve la portano via i bestioni che trasportano il marmo, e fermatevi. Chiedetegli delle sue opere, di poterle vedere e toccare. E lui ve le racconterà anche, scrollandosi via, di tanto in tanto, la polvere di marmo dai vestiti e dai capelli. Ma state all’occhio se pensate che, in arte, la figura geometrica assoluta sia il cerchio perché vi dimostrerà che qualsiasi finestra sul reale non può avere altra forma se non quella del quadrato. Eppure, con lungimiranza, avevate provato a spiegare alla professoressa di storia dell’arte che non era poi così tanta roba quella “O” tracciata a mano libera su un foglio, ma vi aveva dato ugualmente quattro. Come del resto la professoressa di lettere nel compito a sorpresa su “Rosso Malpelo”.

Ma chi l’aveva mai vista una cava? Chi aveva mai pensato bastasse una jeep per arrivare al centro della terra (alla faccia di Jules Verne)? Chi avrebbe mai immaginato che al cuore della montagna, come a quello di ogni donna, si arriva con tanti piccoli gesti perfetti, ma che hanno la forza dirompente di un caterpillar?
Superando le estreme propaggini del paese e seguendo il corso naturale del fiume Frigido, infatti, si arriva alla zona vera e propria delle cave. Interdetta ai più per motivi di sicurezza e poco incline ai tentativi di addomesticamento da parte dei clichè più inflazionati, sembra abbandonata in una sorta di resistenza passiva, quasi ad allontanarsi dalle proiezioni più comuni dell’immaginario collettivo.
Una resistenza che corre sul filo di diamante, che ingrana le ridotte, che viaggia sulla rotaia di un banco ottico, che dura molto più di trenta minuti di pausa pranzo, che ha un rumore profondo a cui non ci si abitua mai ed il coraggio di un paio di occhi castani di un nome che inizia per C.
Una resistenza che ho finito col fare anche un po’ mia. Perché qui le verità assolute non esistono. La ragione se la litigano gli uomini, non è affare della montagna. Non è roba per mondi perduti. E resiste persino il fango che da due settimane sto cercando di lavare via dagli stivali con cui sono entrata in cava. Una tragedia immane per le seguaci di Anna Wintour, un orgoglio per me. Un motivo in più per voltare le spalle al mare della Versilia e buttare un occhio alle Apuane.

Non saprei stabilire, di preciso, quando un viaggio abbia realmente inizio. Ancora il tempo per qualche moka. Il caffè nel barattolo sta per finire, di nuovo.”

Elena Fiorini

Tutta la serie completa delle immagini, insieme a tutti gli altri progetti di Ettore Moni, li potete trovare sul suo sito.

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