In passato ho creduto che la caratteristica di ogni luogo fosse l’immobilità: le geometrie di una città rappresentavano per me elementi fissi che si contrapponevano alla mutevolezza del mio essere ed ogni sentiero era destinato a cristallizzarsi passo dopo passo, così da risultare intatto ad ogni mio ritorno.

Mi sbagliavo.

È stato sufficiente, infatti, tornare sui miei passi e visitare una città già nota per comprendere quanto il mio pensiero fosse errato e quanto Proust ne “Alla ricerca del tempo perduto” avesse ragione nel ritenere che “forse l’immobilità delle cose intorno a noi è loro imposta dalla nostra certezza che sono esse e non altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti”.

La destinazione di un viaggio muta nello sguardo del viaggiatore, così come un libro cambia ad ogni nuova lettura.

louvre

ph. Irene Ledyaeva

Prima di tornare a Parigi, la mia memoria aveva conservato della città un ritratto preciso: i boulevards innevati, il cielo grigio che si rifletteva sulla piramide del Louvre e il via vai di turisti a Montmartre. Nulla di quanto vidi la prima volta ebbi modo di rivedere al mio ritorno: la neve che ricopriva la città nei miei ricordi si era sciolta e con essa tutte le immagini che la mia mente associava a Parigi.

Davanti ai miei occhi avevo una città nuova da scoprire, ma, soprattutto, da capire e per farlo ho dovuto necessariamente perdermi.

Mi sono persa una notte a Montmatre, la stessa Montmatre che nei miei ricordi era piena di turisti e di luce. Mi sono persa senza riconoscere punti di riferimento in un luogo che credevo di conoscere bene. La luce dei lampioni illuminava le sagome di pochi volti, tutti poco raccomandabili, ed io iniziavo a disperarmi. Ciò che mi aveva spinta a recarmi lì nel cuore della notte era stato un desiderio irrefrenabile di vedere dal vivo il Moulin de la Galette, ormai semplice ristorante, da sempre osservato sulla tela di artisti come Van Gogh o Renoir. Le vie caratteristiche di Montmartre offrono sicuramente uno spettacolo suggestivo in pieno giorno, tra gallerie d’arte, café e artisti di strada, ma è di notte che, a mio avviso, si coglie un aspetto più sincero non solo del quartiere, ma dell’intera città: quando i cafè chiudono e i parigini rincasano, infatti, il silenzio avvolge ogni cosa e il passante diventa spettatore estasiato di un giochi di luci e spazi: il vuoto dei vicoli bui si alterna al pieno degli spazi illuminati, nei quali spiccano le insegne di barbieri, le panchine, la cupola del Sacro Cuore e le finestre delle case della gente.

Gente che rende Montmartre viva di giorno e magica di notte, con la sua presenza e assenza, in un gioco di pieni e di vuoti.

Ho visto una Parigi diversa anche a Saint-Germain-des-Prés, quartiere che fino al Novecento non ha rappresentato semplicemente il luogo di incontro di numerosi intellettuali parigini e non, ma a tutti gli effetti un motore della cultura europea. Il passato di Saint-Germain ha un’eco notevole e, sebbene oggi locali come il Café de Flore siano ancora uno spazio di condivisione culturale e letteraria, il ricordo di ciò che è stato s’impone sul presente, condizionando fortemente il modo di vivere il quartiere.

Saint-Germain-des-Prés è in bilico tra l’illustre passato ed il presente e riesce a far coesistere nel medesimo spazio due dimensioni differenti soltanto attraverso inevitabili compromessi: nei luoghi di Sartre e Cioran molte librerie hanno lasciato il posto ai grandi magazzini e sempre più turisti affollano gli storici café. L’idea di Saint-Germain-des-Prés fissatasi nella mia mente coincideva perfettamente con l’idea che il quartiere ha di sé: l’essere spazio vivo nel passato e nel presente per ragioni uguali e contrarie.

Solo rimanendo saldamente legata al passato ho potuto comprendere Saint-Germain-des-Prés; solo così ho potuto scoprire una Parigi differente.

Mi sono persa a Saint-Germain-des-Prés, non fisicamente, ma mentalmente, ricercando i luoghi raccontati da Simone De Beauvoir non per come realmente sono ma per come la mia mente durante la lettura li aveva immaginati, sfogliando un quartiere e l’intera città come se fossero un libro.

Così ho riscoperto Parigi.

Roberta Di Domenico

Studio Lettere Moderne e scrivo racconti. Come per Pavese, il mio significato nel mondo è di scrivere qualcosa. Solo viaggiando, però, ho imparato a dare un significato al mio mondo. Di tutti i luoghi che vedo amo ciò che mi parla di Roma, la città dove sono nata. 

La foto in copertina è di Felipe Dolce.