Non ho mai creduto ai vaticinî sotto forma di quartine dei fondi di caffè. Ho sempre fatto fatica a fare i conti con quel che resta. Figuriamoci se quel che resta è un po’ di zucchero mischiato ai grani di caffè sul fondo di un bicchiere, per di più di plastica. Dopotutto, quando mai al presente é interessato qualcosa del dopo?
Peccherei però di disonestà, intellettuale e personale, se non vi confessassi che, invece, una volta al presente è interessato. Per almeno una volta, ad un’anima randagia è stato concesso di esistere al di fuori delle proprie solitudini autarchiche, al di qua e al di lá di una vita che rivendica, quasi presuntuosamente, il diritto di bastare a se stessa, ma che si tradisce nell’istante in cui si scopre comunque bisognosa di quel senso di comunanza di aspirazioni, identitá e sogni che può realizzare solo attraverso le interconnessioni di un mondo di cui respinge, con forza, ogni giurisdizione. Perché, a volte, basta solo sentir (forse sentirsi) dire e poter (forse potersi) dire: anch’io, anche a me, pure a me, nemmeno a me.
“Prendo un caffè al volo e poi torno al lavoro.”
“Anch’io. E pensa che a me non piace volare.”
” Nemmeno a me. Prendo solo treni, biciclette, autobus, navi e piedi. Quanto zucchero vuoi?”
” Una pallina, grazie.”
“Anch’io! Speriamo che il resto lo dia, almeno. Mi fotte sempre i soldi. Espresso?”
“Li fotte sempre anche a me! Espresso, sì. E pensa che a me non piace nemmeno andare veloce.”
“Nemmeno a me, sai?”
[Biip. Prelevare la bevanda]
“Cavolo, scotta. E cavolo, hanno messo pioggia. Domani sono a casa e volevo fare un giro in bici.”
“Cavolo, mi è scappato troppo zucchero. E non puoi andare lo stesso?”
“Sì, però quando piove è un casino. Non te lo gusti.”
“Un po’ come mettere troppo troppp o troppo poco zucchero.”
“Tempo fa, sui Pirenei, ho beccato un’acqua della madonna. Ti giuro, le gocce sembravano sassate.”
[Biip. Prelevare la bevanda]
“Mi allunghi la palettina per girare che non è scesa? E cos’hai fatto?”
“Tieni. Assolutamente niente. Ho aspettato che smettesse e poi sono ripartito. Non è mica la fine del mondo fermarsi, sai?“
“Lo so, o meglio, credo di saperlo. È solo che il mondo ha quasi finito col convincermi che l’unica alternativa sia andare, magari col 4G o a 20 Mega, senza perdere tempo, senza cincischiare, senza fischiettare, senza indecisioni, senza errori nè fallimenti. Poi se si rimane indietro? Se si rimane indietro cosa si fa?”
“E anche se fosse? Che male c’è? Capire quando è tempo di fermarsi, tirare il respiro, saper aspettare, riposare e ripartire sono opportunità. Siamo o no esseri umani? In un certo senso ce lo dobbiamo.”
“E chi viaggia con te? Chi viaggia con te non si stanca di aspettare?”
“Io viaggio sempre da solo, in bici o a piedi. Amo viaggiare lento, con i miei ritmi e i miei rituali. Assecondandomi, rispettandomi, ascoltandomi, aspettandomi, pensandomi, liberandomi.”
“Sa di bruciato questo caffè. E non hai paura?”
“Anche il mio non è granché. Guarda, non so come vendertela. Vedi, viaggiare da soli è come essere un equilibrista. Cammini su un filo teso. Sempre, comunque e dovunque. E sai che prima o poi si spezzerá, ma speri non lo faccia o lo faccia il più tardi possibile. Anche perché, per te, non può essere che così, anche perché altri modi (mondi) non ce ne sono. Certo, un pochino di paura c’è, ma va via, un po’ come i mostri sotto il letto o nell’armadio, quando si accende il bello.
“Il bello? “
“Il bello di quello che non solo vedi, ma percepisci con tutti i sensi. E più il tempo scorre impietoso, più tu rallenti per farti entrare tutto dentro. Ed è un po’ come se tu lo prendessi in giro. Sapessi quanto si incazza, a volte!”
“E com’è vivere sopra tutto, soprattutto? “
“Senz’altro aiuta a ristabilire e a ridimensionare priorità e prospettive. E non è questione di relativismo. È solo che impari che tutto ciò che esiste anche al di fuori di te non è sbagliato, comprese le scelte degli altri, quelle che tu non prenderesti mai. Impari che non solo la differenza, ma anche la somma, la moltiplicazione e la divisione la fanno i dettagli microscopici. Impari il rispetto, a dartelo e a riceverlo. Impari ad incontrare l’altro e a venirti incontro. Impari a non usare “ovvero” con l’accezione di “oppure”. E poi impari i colori. Come sono belli i colori.”
“Mi hai fatto venir voglia di comprare una scatola di pastelli.”
“Eppure mi vesto sempre di nero.”
“Così sei tutti i colori, senza far torto a nessuno.”
“Giotto Turbocolor.”
“Ti vedevo più come pennarello Carioca.”
“In realtà mi è capitato di farmela in mano, una volta (si può dire farmela in mano, no?)”
“Racconta!”
“Ho incrociato un branco di lupi. Mi hanno tenuto sotto tiro per parecchio, sino a quando i due maschi alfa non hanno deciso che il branco fosse al sicuro, nel bosco. Mai visto animale più maestoso.”
“Mi risparmio le battute sul maschio alfa.”
“Brava!”
“Certi incontri possono cambiarti la vita.”
“Questa sa troppo di foto cartolina col cucciolo di foca bianca di National Geographic, però!”
“Guarda che faccio la battuta sul maschio alfa, eh. Ma se ti avessero aggredito? Cioè se mentre sei a fare Cappuccetto Rosso, tralallero trallalá, ti senti male?”
“Ero sugli Appennini. E tieni presente che viaggio con una tendamaca.”
“Ah, niente Trivago? Ok, scusa. Vai avanti.”
“Stavo per svalicare verso Bologna, ma ero così stanco che ho fissato la tenda a due alberi e sono crollato, con un piede fuori dalla zanzariera.”
“Tipo quando fa caldo e si tiene fuori dalle lenzuola o a stretto contatto col pavimento?”
“Tipo. La mattina dopo mi sono svegliato con la faccia e la gamba gonfie. Molto gonfie. Parecchio gonfie. Piene di piccole punture di ragno. Così mi sono sparato un po’ di cortisone e sono andato dalla guardia medica del primo paesino che ho trovato.”
“L’hai ammazzato il ragno?”
“E che colpe aveva il ragno? Ho sbagliato io. Viaggiare da soli è anche scegliere per sé, dipendere da sé. Poi porta sfiga uccidere i ragni!”
“Ecco fatto: anni di addestramento a colpi di scopa e paletta, buttati.”
“Scegliere per sé vuol dire anche fermarsi, per tre notti meno una, nell’albergo per pellegrini di tre ragazzi, a Ruesta, nel bel mezzo del nada de la nada dell’entroterra spagnolo. Avessi viaggiato in gruppo, t’immagini che casino mettere d’accordo tutti? Anzi, penso proprio non mi sarei mai fermato lì e quasi sicuramente mi sarei perso quel «lluvia de estrellas».”
“Cos’è? La nuova hit di Enrique Iglesias?”
“È la pioggia di stelle. È dalla Iluvia de Estrellas in poi che ho abbandonato completamente ogni proiezione del mondo su carta, ogni punto cardinale, ogni rotta, ogni previsione. Ho abbandonato il Cammino del Sud che avevo deciso di seguire, sono salito a Pamplona e ho raggiunto Saragozza. Per un totale di ottocentocinquantotto chilometri, tutti pedalati.”
“Put down the map and get wonderfully lost.”
” Questa, invece, fa un po’ troppo slogan LonelyPlanet.”
” Ok ok, la smetto.”
“In realtà penso che, in un modo o nell’altro, in un tempo o nell’altro, in un viaggio o nell’altro, la si debba trovare la propria direzione, altrimenti il cervello rischia di partire per altrove. Ogni tanto, però, perdersi fa bene, intendiamoci.”
“Eccolo, Osho!”
“Sai che un soprannome ce l’ho già? Tiè!”
“Gne gne gne. Sul serio?”
“Sul serio.”
“Giuramelo sulla tua bici.”
“Giuro. È “Buena Onda”. Me l’ha dato un giramondo belga. Percorrevamo strade differenti, distinte, parallele, ma che ad intervalli di tempo regolari si intersecavano, di tanto in tanto. E a tutti quelli incroci mi urlava, puntualmente: “Buena Onda, Buena Onda!”. Diceva che avevo un sorriso che gli portava fortuna.”
“Che cosa curiosa avere un sorriso portafortuna.”
“Già.”
“E come fai a mantenere, tenere per mano, tutti questi tuoi metaviaggi?
“Niente foto. Qualche parola. Tutti ricordi.”
“E un sogno ce l’hai?”
” La Transiberiana. Quasi 10.000 km. 1000 fermate. 7 fusi orari.”
“E cosa aspetti? Vai, no!?”
“Ognuno ha il suo tempo ed il mio non è ancora arrivato.”
“Dammi che ti butto il bicchierino. Posso scrivere di te?”
” Sì. Poco, però.”
” Una pallina?”
” Una pallina.”
“Una pallina, promesso.”
Questa è stata l’unica volta in cui ho creduto ai vaticini sotto forma di quartine dei fondi del caffè e non ho fatto alcuna fatica a fare i conti con quel che resta. Com’è? “Giusto il tempo di un caffè”, no?
Spero solo non mi sia scappato troppo zucchero, o perlomeno più di quello promesso.
Sia chiaro: Buena Onda non è frutto di alcuna licenza letteraria. Buena Onda esiste davvero ed esistono davvero le sue parole, la sua bicicletta, il suo viaggiare lento.
E se capitate in centro, la mattina presto, guardatevi bene attorno perché potreste essere abbastanza fortunati da incrociarlo mentre va al lavoro. In bicicletta, ovviamente.
Non ci credete? Ve lo giuro sulla sua bicicletta (sono sicura non me ne vorrà).
Nata, per caso, a Genova nel 1989 e cresciuta nei dintorni di Aulla, una piccola cittadina toscana situata alle estreme propaggini della provincia di Massa-Carrara, consegue la maturità classica con la lode e si trasferisce a Parma, dove tuttora studia e lavora. Amante dei libri, dei cani e del cioccolato, scrive a tempo trovato storie in cui finisce sempre col mettere molto di più di un po’ di se stessa.