“We are the friends dancing in a sleeping Rome
Come on now dance through the bends of a glorious past
We drink the tears of sky, with our trembling mouths
Between earth and grey clouds…”
Sleepwalk in Rome – Klimt1918
Prendo spunto da uno scritto di Donata Columbro. Parla dell’innamorarsi delle città, nel suo caso Roma. Siccome io, milanese, mi sono ritrovato spesso a difendere questo stesso innamoramento, anche con alcuni romani doc, soffendo apparentemente della stessa sindrome, ho pensato valesse la pena una riflessione in più. Perchè amo Roma?
Io di Roma ho ricordi molteplici, a distanza di anni, a distanza di momenti più o meno cruciali. La prima cosa che mi ricordo e che mi incantò letteralmente fu l’ingresso alla stazione Termini, il treno rallenta e davanti a me infinite antenne sui tetti. Fili interrotti che puntano verso il cielo, infiniti fili, come tratti di matita a disegnare un chiaro scuro, una strana ombra che non dovrebbe esserci, ma che invece c’è. Così come le nuvole nere e mobili che si disegnano nel cielo, gli uccelli che si muovono con regole sconosciute disperdendosi e raggruppandosi. Direi che il primo motivo per cui mi sono innamorato di Roma è stato il cielo. Lo stesso cielo che prende un gamma di sfumature blu arancio intorno all’ora del tramonto, nei Fori Imperiali. Sì, ancora cielo. Lo stesso cielo che dal Giardino degli Aranci si stende come una quinta perfetta alle spalle dei grandi monumenti. Io ho dei momenti di cedimento, da sindrome di Stendhal quasi, per alcuni posti. E sono consapevole che potrei averne altri, perchè so di posti altrettanto meravigliosi che non ho mai visto. Me li tengo per un futuro prossimo, non si sa mai. Poi è anche vero che alcune delle persone migliori al mondo che conosco sono romane, e questo aiuta.
Ho avuto la grande fortuna, grandissima fortuna, di viverci a Roma per un po’. In una casa che definirei piccola, ma di sicuro non renderebbe l’idea. Ci sono cose che non riesco a spiegare, e forse non è nemmeno possibile farlo, del resto come puoi spiegare perchè ti piace qualcuno? Ti piace e basta! Non c’è razionalità che tenga. Per questo ogni volta che sono tornato, ogni volta che ho potuto ho fatto una visita al Vittoriano. Per me, uno dei posti più belli al mondo. Sarà colpa di Greenaway, sarà colpa dell’architettura, ma io lì ci vado, mi siedo e guardo. Non faccio altro.
Una domenica mattina sono andato a fare due passi all’EUR. Per me un posto così bello, così incredibilmente bello non c’è. Camminavo lungo le strade e ogni tanto mi fermavo a guardare intorno. Non so bene come, ma il mio sguardo fu attirato da un citofono: c’era scritto Pontecorvo. Quel Pontecorvo? Quasi sicuramente sì, chi altro poteva essere. Del resto Roma non era il posto dove solo qualche anno prima, una sera a Campo dei Fiori, avevo incontrato Michelangelo Antonioni. Voglio dire, Antonioni. Quello del finale di Zabriskie Point, che chiama i Pink Floyd per la colonna sonora, quello di Blow Up e Professione Reporter. Lui, in carne ed ossa, a 50 centimetri da te.
Poi ci sono delle piazze, degli edifici, delle strade delle chiese che fanno tremare i polsi. Come San Carlino alle 4 fontane. Io lo stato d’animo di Donata percorrendo via Labicana, ce l’avevo scendendo per via Nazionale alle 8 di sera. E siete mai stati seduti al Pantheon, al Palazzo Farnese, anche in mezzo a tutta la gente, non importa. Non la senti più. E due passi a San Saba? E a Piramide, al cimitero acattolico? Io credo che quell’area che si snoda giusto dietro Campo dei Fiori, abbia qualcosa di speciale. Un’altra dimensione? Un upsidedown? Forse, so che una volta sono stato da queste “vecchiette” a Vicolo del Gallo e non avrei voluto essere da nessun’altra parte al mondo.
Una volta ho aspettato un autobus per 50 minuti. Sì, 50 minuti. Una roba indegna. Adesso qui a Milano se vedo la scritta “Attesa 7 minuti”, entro in agitazione. Non che sia giusto aspettare 50 minuti un mezzo pubblico, non lo è. Però quando ho deciso di incamminarmi a piedi e ho cominciato a passare davanti ai Musei Vaticani, Castel S.Angelo, Lungotevere Gianicolense per arrivare al bivio in cui scegliere tra via della Lungara e Lungotevere Farnesina, ho pensato che dopotutto non era tanto male. (Però quella volta che da Via della Bufalotta al centro ci ho messo un’ora e mezza, un po’ mi sono girate!).
Mi è capitato di andare a un paio di feste, anni fa. Studiavo a Roma, per cui a volte capitava di ricevere un invito, amici di amici. Una era all’Esquilino, vicino piazza Vittorio. Un portone anonimo, entriamo. Ascensore, ultimo piano. Porta, ingresso e BAM…terrazzo romano. Avete mai visto un terrazzo romano? Una grande stanza a cielo aperto, con il caldo sì, ma quella leggera aria che te lo rendo molto più sopportabile. Non ci fu nulla di memorabile quella sera, non ricordo nulla, nemmeno una chiacchiera, ma ricordo perfettamente la vista sui 4 lati. Un paio d’anni dopo, un altro terrazzo. Un ascensore e poi una scala per raggiungere l’ultimo piano, una casa e dei gradini posti davanti ad una finestra, per poter uscire sul terrazzo. Questo era ancora più bello e più grande. Di quella sera ho molti più ricordi, c’erano molti più amici, ricordo le chiacchiere, le risate e l’aria fresca. E sempre la vista a 360 gradi. Roba da stare affacciato per ore, da pagare il noleggio per quel pezzo di parapetto da cui potersi sporgere per guardare la città letteralmente respirare.
Io non ho mai guidato un motorino. I miei genitori non erano molto favorevoli e in fondo io non ero molto interessato. Quindi mai guidato. A Roma è pieno di motorini. Pieno. Una sera dovevo andare lungo la Nomentana o la Salaria, insomma un po’ in là e senza mezzi. La mia amica Federica aveva un Aprilia Habana bordeaux e andai con lei, seduto dietro. Avevo lo sguardo all’insù come la solita scena di Moretti con la Vespa. Non facevo commenti su Garbatella o Spinaceto, ma ricordo di essermi divertito tanto. (Ogni tanto a Federica ancora lo ricordo!)
Ci sono cinema come Azzurro Scipioni, che se non lo vedi, pensi sia il racconto di un film di Fellini. Io ci vidi questo film:
Una volta ho preso un autobus notturno al volo. Probabilmente era l’ultimo, dopo di quello mi avrebbe aspettato una lunga traversata di una delle città più grandi del mondo, perchè Roma è davvero grande. Più di Berlino, tanto per intenderci. Saltai sull’autobus al volo, pochi istanti prima di partire dal capolinea dalle parti di via Levanna. Un viaggio notturno quasi surreale, sbalzato continuamente dalle troppe buche per terra e contagiato dalla gioia dell’autista che – immagino – dopo ore e ore di turni diurni in mezzo al traffico asfissiante, si trovava le strade tutte libere. Una volta sono andato a piedi da Cipro all’Aventino. Sotto il sole, con una luce accecante, solo per potermi sdraiare un po’ all’ombra e leggere.
Ho ricordi di incredibili luci mattutine, di passeggiate serali, di bomboloni notturni, di concerti di amici, di cacio e pepe a Testaccio, di me che rido da solo leggendo Sedaris, mentre aspetto alla fermata di Cavour, di via dei Serpenti e Madonna dei Monti; di quella volta che al bar, per pranzo, ho chiesto un’insalata senza insalata e quasi mi prendo una “pizza” in faccia…ma solo quasi, perchè poi sono sempre stato quello dell’insalata-senza-insalata.
Quello che mi ha sempre colpito, non era tanto la bellezza di qualcosa palesemente e insindacabilmente bello, troppo facile. Sono sempre stati gli angoli, le atmosfere, che dal niente si potevano creare diventando la sezione aurea di un momento. Anche solo una frase su un cartello, o un minuscolo locale che ad una certa ora chiude la saracinesca e una volta dentro assisti ad uno straordinario spettacolo di cabaret: succedeva al Baronato Quattro Bellezze, con Dominot che cantava Edith Piaf e Juliette Greco. A Roma le storie girano nell’aria.
La piccolissima casa in cui abitavo era un sottotetto. Era estate e faceva caldo, molto caldo. Una sera mi addormentai con le finestre aperte e il cd di Ágætis Byrjun dei Sigur Rós in loop, a volume bassissimo, ma nel silenzio della notte, forse, non abbastanza basso. Al mattino seguente, sul portoncino dello stabile qualcuno aveva attaccato un foglio, scritto a mano, che diceva (sulla prima parte potrei sbagliarmi, ma sull’ultima frase no):
“Si ricorda che il volume di musica e televisori devono rispettare il diritto al riposto di tutti. La prossima volta che qualcuno terrà la musica accesa tutta la notte verrà chiamata la Polizia. P.S. E cambia quel cazzo di disco! Nun se po sentì!”.
Sono passati tanti anni e le cose, a quanto mi dicono, sono un po’ peggiorate. Funziona tutto bene? No. C’è un eccesso di turismo, sfruttamento, incuria? Sicuramente sì. Non stento a crederci, ma come dice Donata nel suo articolo: “la mia infatuazione di bambina (la mia non è da bambino, ma poco importa.) continuerà a sovrapporsi a ogni verità.” Credo di poter dire che sarà sempre così anche per me.